Lecco, 17 marzo 2014 - Sette giorni dopo la mattanza, c’è il sole a Chiuso, esattamente come la settimana precedente. La provinciale che taglia in due il popoloso rione alla periferia di Lecco sembra una località turistica, con la strada intasata di visitatori che vanno e vengono dal lago e dalla Valsassina. Ma chiunque passi da lì, a piedi, in bicicletta, in moto o in auto, rallenta, per guardare quelle finestre chiuse al secondo piano della palazzina di corso Bergamo 87 dove si è consumata la strage (LE FOTO).

Non si riesce a scorgere nulla dentro, le tapparelle sono abbassate, si vede solo il terrazzo d’angolo: un armadio utilizzato come ripostiglio, uno stendino ripiegato, un catino e qualche gioco sul pavimento del ballatoio. Il tempo in quel luogo è come sospeso a sabato scorso, prima che Simona, Keisi e Sidny, le sorelle di 13, 10 e 3 anni venissero uccise per mano della mamma. In tanti si fermano, c’è chi si fa il segno della croce, chi depone fiori o qualche biglietto, chi semplicemente osserva, quasi per capire l’incomprensibile. Nessuno però vuole parlare. Adesso è il momento del silenzio e del rispetto.

L’incombenza di esprimere il ricordo e il dolore per quanto accaduto se l’assume per tutti don Angelo Cupini, fondatore della Casa del pozzo, divenuta la camera ardente e il luogo del commiato per le tre bambine. «Quello che abbiamo affrontato in questa settimana condensa e stordisce un’esistenza intera. Per me tutto è iniziato alle otto meno dieci con una telefonata per avvisarmi della tragedia. La mappa delle persone si chiarisce verso mezzogiorno. Viviamo il dolore di abitare vicini e di essere sconosciuti reciprocamente. Sentiamo acuto il peso che queste vite sono chiamate a sostenere: quelle degli adulti, spesso soli e delusi, quelle dei giovani figli sui quali si scaricano frustrazioni e angosce per il futuro. Noi siamo in mezzo». Tra i tanti messaggi e le molte parole sentite il sacerdote ne ricorda soprattutto due, ricorrenti: «Riposo e angeli. Per riposarsi e averne un profondo bisogno si deve essere molto stanchi, non degli anni vissuti, è evidente; ho pensato che queste morti sono state una fatica tremenda, al punto da non farcela più. Siamo stati presi per mano da tre giovanissime bambine; la loro immagine è diventata un’icona. Ci siamo mobilitati per andarle a salutare ma siamo invitati a fare un altro viaggio drammaticamente impegnativo. Che le loro morti non siano inutili».

di Daniele De Salvo