Lecco, 13 marzo 2014 - «Ha tentato di gettarsi nella tromba delle scale, l’ho dovuta trattenere prima che la sedassero». Dopo aver ucciso le tre figlie, Edlira Copa voleva togliersi la vita buttandosi dal pianerottolo di casa, al secondo piano della palazzina di corso Bergamo 87. Per la prima volta lo racconta il carabiniere che quella notte era di turno e, insieme al collega, interviene nel rione Chiuso in seguito alla richiesta di soccorso di Alessandro Tacini. «Se penso che il vicino aveva sentito gridare già qualche ora prima ed è tornato a letto senza chiamarci, mi viene un po’ di rabbia». Invece sono passate quattro ore, sono le 6.25 di domenica, il massacro è compiuto, i corpi di Simona, Keisi e Sidny sono stati vegliati ed Edlira si trova sul pianerottolo con le chiavi in mano e la porta di casa chiusa alle spalle.

«Era tutta sporca di sangue e le ho chiesto: “Dove sono le sue figlie, signora?“. Lei mi ha risposto: “Non ci sono più”». Tutto qui. A quel punto il militare si volta in direzione della porta, abbassa lo sguardo e vede «che l’ingresso è tutto sporco di sangue». Nel frattempo è arrivato anche il personale del 118 che seda la donna e la porta in ospedale. «Ho preso le chiavi, ho aperto la porta, mi sono fatto il segno della croce e poi sono entrato con il medico». Perché dietro quella porta tutto lascia presagire che si vada incontro all’orrore, così il collega preferisce non entrare. «C’era sangue dappertutto, per terra e pure sui muri». Tutto sa di morte. «Le bimbe erano sdraiate sul letto matrimoniale, le due più piccole una a fianco all’altra, la più grande distesa al contrario con i piedi sul cuscino». É l’epicentro della mattanza.

«In trent’anni di servizio ne ho viste di tutti i colori, morti ammazzati, incidenti ma tutto questo va oltre. Da padre di famiglia non mi riesco a spiegare perché. Cosa c’entrano quelle bambine? Cosa potevano aver fatto di male?». Dal massacro sono passati quattro giorni e i due colleghi sono di nuovo in servizio all’ospedale di Lecco nel giorno in cui le tre bare bianche lasciano la Morgue del «Manzoni». Il padre di Simona, Keisi e Sidny, Bashkim Dobrushi, arriva intorno alle 14.15, cammina a stento ed è sorretto da due parenti. Resta una manciata di minuti, poi riesce con la testa tra le mani. «Éil nostro mestiere, a volte un gran brutto mestiere», ci dice il carabiniere mentre saluta uno dei parenti: «É uno zio delle bimbe, lo conosco: lavora in una discoteca della zona».

andrea.morleo@ilgiorno.net