Bulciago, 20 febbraio 2013 - Dovevano scontare l’ergastolo i due sequestratori e assassini di Vittorio Arrigoni, il pacifista 36enne di Bulciago ammazzato nella notte tra il 14 e 15 aprile 2011 a Gaza dai componenti di un commando di terroristi salafiti. Anzi, erano destinati probabilmente all’esecuzione capitale, ma i familiari del pacifista si sono opposti preventivamente ottenendo che venissero risparmiati. Ieri mattina i giudici della Corte d’appello hanno ridotto la pena a quindici anni per Mahmoud Salfiti e Tamer Hasasnah di 23 e 25 anni, ritenuti colpevoli al termine del processo di primo grado (concluso il 17 settembre scorso) non solo del rapimento del pacifista ma anche della sua uccisione.

Tra ulteriori riduzioni, benefici, permessi premio e buona condotta rischiano di tornare in libertà nel giro di breve tempo. L’udienza per discutere il ricorso avrebbe dovuto essere celebrata domenica, ma è stata rimandata a martedì mattina. I magistrati si sono epressi nel giro di pochi minuti, senza esaminare gli incartamenti nè convocare testimoni. Risulta al momento difficile decifrare le motivazioni di una simile decisione, perché la giurisprudenza nei territori occupati della Striscia appare molto complicata e condizionata dalle usanze locali, che prevedono la prassi della riconciliazione attraverso il pagamento di un tributo come risarcimento per il reato commesso.

«Sono disorientata e colpita da questa riduzione di pena che al momento ci pare immotivata. Da quello che abbiamo appreso si tratterebbe di una sentenza già scritta, perchè non c’è stato alcun tipo di dibattimento». A parlar è Egidia Beretta, mamma di Vittorio Arrigoni e sindaco di Bulciago. «Ma quello che conta non è più la morte di mio figlio, è la sua vita. I semi piantati da Vik stanno germogliando in tutto il mondo e risvegliando le coscienze, non me lo sarei mai aspettata. A me non resta che andare, andare, andare, ovunque mi invitano per parlare di lui». «Gli assassini sono stati identificati e condannati - commenta Alessandra, la sorella 39enne del pacifista -. Questo per me significa comunque giustizia. In me non c’è rabbia, nè odio nei loro confronti. Ho perdonato questi ragazzi, spero che le loro mani, sporche ancora e per sempre del sangue di mio fratello, possano generare vita».

C’è sconcerto, delusione e persino la rabbia tra i conoscenti del cooperante brianzolo: speravano che fosse l’occasione per chiarire i molti punti rimasti oscuri della dolorosa vicenda, a partire dai reali mandanti e dalle motivazioni che hanno spinto a colpire chi era ritenuto amico dei palestinesi, unico testimone occidentale dei momenti bui a Gaza, come l’attacco da parte degli israeliani durante l’operazione Piombo fuso.

«Rimane una grande tristezza - sostiene Meri Calvelli, amica del cooperante italiano che ha assistito al processo d’appello -. I due imputati non si sono mostrati pentiti per l’atto compiuto, ridevano dentro la gabbia e guardavano ancora con sfida gli internazionali presenti, in attesa di una scelta che probabilmente già conoscevano».
 

 

di Daniele De Salvo

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