E adesso che fare

Su un punto gli esperti concordano: quello crollato a Genova non era un ponte anomalo

Milano, 19 agosto 2018 - Su un punto gli esperti concordano: quello crollato a Genova non era un ponte anomalo. Molti, tutti regolarmente in servizio, sono quelli costruiti con gli stessi materiali e le stesse tecniche - il ricorso al cemento armato precompresso - anche se non necessariamente progettati con la stessa morfologia di quello di Riccardo Morandi che attraversava il torrente Polcevera. Dunque un problema sicurezza esiste. Se non altro a causa dell’incuria cui ponti e infrastrutture sono stati spesso abbandonati. Per carenza di fondi e di personale adeguati nel caso delle opere destinate alla viabilità ordinaria; per motivi ancor meno comprensibili e giustificati nel caso delle grandi strutture come quelle della rete autostradale. Sarà la magistratura, grazie al lavoro di periti, tecnici e investigatori, a dirci ufficialmente perché il viadotto sul Polcevera è crollato. Sappiamo già, però, che la tragica mattina del 14 agosto due stralli si sono rotti - facendo così crollare un lungo tratto di ponte - e si sono rotti molto probabilmente per corrosione. Dettaglio drammaticamente importante. Che strutture come quelle che reggevano le campate del ponte Morandi fossero oggetto di progressivo degrado nel tempo era noto. Come note erano le principali cause della corrosione strutturale. A cominciare dall’azione dell’anidride carbonica, dai fumi inquinati dell’industria e dalle infiltrazioni d’acqua. 

I difetti del ponte maledetto erano perfettamente conosciuti dagli addetti ai lavori. Ma allora perché le opere di rafforzamento, iniziate nei primi anni Duemila, sono state interrotte e non estese, invece, alle altre pile? Le criticità del ponte Morandi, si è detto in questi giorni, all’indomani della tragedia, nascondevano una peculiarità strutturale (la fragilità morfologica della struttura, cioè la possibilità di un collasso totale, da castello di carte, al manifestarsi di una rottura di un solo elemento strutturale). Ma tutto questo non può essere invocato come alibi per coprire problemi più importanti ed errori o ritardi nell’affrontarli e risolverli. Ora, però, la priorità è appurare quanti e quali sono i ponti con uno schema altrettanto fragile del viadotto crollato a Genova. Per farlo non servono inizialmente investimenti cospicui o strumenti sofisticati. Basterebbe, per intenderci, iniziare col censirli e fotografarli, per appurarne poi lo stato di salute. L’Italia ha personale e professionalità adeguati per avviare questo primo intervento. Per esempio gli ingegneri delle Ferrovie che hanno già saputo misurarsi con i progetti e i cantieri dell’Alta Velocità, ma anche molti tecnici delle amministrazioni locali, oggi in gran parte inutilizzati. 

Un censimento documentale è fondamentale per attestare quali sono i ponti che presentano una criticità immediata, dovuta, appunto a ciò che gli ingegneri chiamano fragilità interna. Fare ordine nelle carte è altrettanto prioritario. Occorre che ogni amministrazione o ente gestore possieda un catalogo aggiornato delle opere di sua competenza, comprensivo dell’elenco delle ispezioni avvenute e delle risultanze ottenute. Questo per avere una sorta di scheda sanitaria di ogni struttura e infrastruttura, che certifichi il loro esatto stato di salute. Poi ci sono le scelte più politiche o, almeno, strategiche. Che non possono prescindere, cioè, dal piano di sviluppo previsto per il Paese. E che devono perciò affiancare agli investimenti sulla sicurezza una maggiore attenzione alla pianificazione e all’efficienza dei progetti. Pretendendo ad esempio che una corretta gestione preveda anche un piano finanziario comprensivo delle spese di manutenzione di un ponte sino al termine della sua vita di servizio, compresa in genere tra i 70 e i cento anni. In Giappone lo fanno, e questo ha consentito una riduzione dei costi a vantaggio di investimenti sulla viabilità e di una migliore gestione del traffico. Oggi è dovere della politica decidere se sposare un piano di sviluppo che non possa prescindere da un atteggiamento diverso da quello passato su questo fronte o se continuare a vivere alla giornata, con tutto quanto ne può conseguire. In attesa che piena luce venga fatta sul disastro di Genova, è auspicabile che Riccardo Morandi, il progettista del ponte malato, non diventi un capro espiatorio. Non sarebbe giusto far pagare a chi non c’è più il conto delle vere responsabilità sull’accaduto.