C’è un dato interessante in Lombardia. Negli ultimi due anni, sono state presentate ai datori di lavoro circa un milione di dimissioni. Tradotto: circa un lavoratore su dieci ha abbondato volontariamente il proprio impiego. Ma la cosa ancora più sorprendente è che il 40 per cento di quei lavoratori non aveva un’occupazione alternativa: ha fatto, cioè, un salto nel vuoto.
I motivi di quella che da tempo è stata denominata “Great Resignation” – Grandi Dimissioni – non sono legati tanto alla retribuzione o alle possibilità di carriera, come si vede da decenni a questa parte. Hanno ragioni diverse: i nuovi lavoratori cercano serenità, stimoli, rispetto e non vogliono invasioni nel proprio tempo libero; reclamano, in buona sostanza, che il lavoro non diventi la parte centrale della propria vita.
E in questa nuova cultura del lavoro c’è un germe rivoluzionario. Un germe di cui si sta facendo portatrice soprattutto la cosiddetta Generazione Z, cioè quella nata tra la fine anni Novanta e i primi anni del Duemila. Nel sottrarsi alle dinamiche più elementari del mercato – quelle che tratteggiano lavoro e salario sullo stesso cartesiano della domanda e dell’offerta – i giovani non stanno cambiando le carte in tavola ma, più radicalmente, stanno ribaltando il tavolo. Chi deve rendersene conto sono i datori di lavoro. Altrimenti finiranno, insieme al tavolo, gambe all’aria.