Case popolari, evitare i ghetti è possibile

Il direttore Sandro Neri

Il direttore Sandro Neri

Milano - I recenti fatti di via Bolla a Milano, dove le tensioni fra inquilini regolari e abusivi sono sfociate in una maxirissa che ha visto fra i feriti anche un bimbo di due anni, hanno fatto di nuovo scattare l’allarme case popolari. Col conseguente fumo di polemiche e scambi d’accuse tra le diverse fazioni politiche. Considerato che sono 87.900 le famiglie che abitano nelle case popolari di Milano e provincia, è ora che il tema non venga affrontato più solo sull’onda dell’emergenza o dei duelli da clima elettorale. Si parla da tempo di fusione, partecipazione, collaborazione tra le società che a Milano gestiscono le case popolari. Cioè Mm, società del Comune, e Aler, di Regione Lombardia. 

Ma c’è, lo si è visto anche con lo sgombero dell’altra mattina, pure un problema di ordine pubblico. Al di là di tutte le migliorie possibili nella gestione dei patrimoni, è l’idea di casa popolare che forse dovrebbe essere rivista. L’edilizia residenziale pubblica, cioè, come risorsa strategica di persone, case e quartieri da valorizzare e curare. Non un corpo estraneo, ma una città trasversale e diffusa. Milano, più di altre realtà italiane, ha ancora un patrimonio pubblico consistente (circa il 20 per cento delle case disponibili in affitto in città), in parte incrementato o riattualizzato dalle ultime politiche sulle nuove costruzioni e la riqualificazione. I nodi critici sono molti: la difficoltà di introdurre elementi di innovazione della gestione ordinaria; la mancanza di sistemi integrati di supporto alle fragilità sociali; la grave obsolescenza di alcuni spazi residenziali e di servizio. Poi la rigidità dei meccanismi di assegnazione e il ricambio della popolazione (un turn over impossibile). Nonostante le interessanti sperimentazioni, è in atto una profonda crisi del ruolo dell’edilizia pubblica, non solo nei contesti particolarmente difficili.

Lo confermano le dinamiche di vendita diffusa del patrimonio (che ancora dal 2001 è stato eroso del 12 per cento attraverso i piani di alienazione) e il suo controverso utilizzo (oltre 7.000 gli alloggi vuoti). Tutte dinamiche che generano una spinta contraria alle sperimentazioni in corso e un invito ad archiviare un patrimonio importante di alloggi, spazi e politiche. Come se fossimo di fronte a una sorta di “problema urbano” del quale liberarsi. Bisognerebbe invece lavorare a un’idea di edilizia residenziale pubblica come risorsa per la città; un contesto sicuramente poliedrico e problematico, ma anche ricco di risorse, competenze e culture di cui sono portatori sia gli abitanti che le istituzioni. C’è un mix sociale da costruire per ridurre le sacche di povertà e di rancore sociale. Un traguardo possibile aprendo questi quartieri ai giovani in cerca di case a prezzi sostenibili e affiancando ai necessari investimenti pubblici quelli dei privati per la creazione di nuovi alloggi.