C’È VITA (E NUMERI) OLTRE AL PIL, PAROLA DI ONU E OCSE

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COME RIUSCIREMO a far convivere sullo stesso pianeta quasi 10 miliardi di persone nel 2050 in condizioni dignitose? E con quali strumenti di analisi affronteremo un futuro che sarà dominato da crisi globali imprevedibili, come ha dimostrato la pandemia da Covid-19, che possono derivare da virus, dal climate change o più in generale dallo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali? E infine come faremo a misurare, intercettare, decifrare gli ‘spettri’ che si aggirano nelle ricche società occidentali influendo pesantemente sull’economia e sulla vita delle persone?

L’interrogativo è antico, come dimostra il celebre discorso di Robert Kennedy del 1968 secondo cui "il Pil misura tutto, fuorché quello che rende la vita meritevole di essere vissuta". Ma finalmente iniziano ad arrivare tentativi di risposta a livello internazionale. Nelle ultime settimane la Commissione statistica delle Nazioni Unite ha completato il processo di definizione del System of Environmental Economic Accounting, un nuovo standard internazionale capace (in prospettiva) di integrare il ‘capitale naturale’ nella misura del Pil, armonizzando le statistiche sull’ambiente e le loro relazioni con le dinamiche economiche e fiscali. In particolare, il Seea contiene indicazioni per redigere rendicontazioni uniformi sul piano statistico nei settori dell’agricoltura, delle foreste e delle riserve ittiche, delle emissioni inquinanti, dell’energia, delle riserve idriche e dei flussi di materiali. Questo nuovo strumento sarà fondamentale nella lunga corsa verso i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite perché consentirà di rendicontare in modo affidabile e puntuale le relazioni tra ambiente ed economia. È notizia altrettanto recente – e convergente – la creazione da parte dell’Ocse del nuovo centro di analisi e di ricerca Wise (Well being, Inclusion, Sustainability and Equal opportunity), che si propone di misurare il benessere collettivo sulla base del principio Measuring what matters: misuriamo ciò che conta davvero. Non è il caso di farsi prendere da facili entusiasmi, pensando che la complessa questione sia risolta. Un enorme macigno ostruisce ancor oggi la strada che porta al superamento del Pil, o meglio alla sua integrazione con standard ambientali e sociali: la mancanza di un indicatore unico del benessere della comunità e del pianeta. Una delle ragioni del dominio (finora) incontrastato del Prodotto interno lordo come indicatore del successo di una comunità è, infatti, la sua estrema semplicità: pur essendo il risultato dell’interpolazione di migliaia di dati, il Pil è un numero unico. In grado di indicare con chiarezza, anche a chi è digiuno di economia, il progresso o la recessione di un Paese. Ed è inoltre un numero che rende pienamente confrontabili le performances di tutti i Paesi del mondo, perché si basa su una metodologia universalmente condivisa.

È possibile oggi affiancare al Pil un indicatore unico del benessere collettivo e della salute del pianeta? La risposta è sicuramente negativa. Uno degli economisti più celebri a livello globale, il premio Nobel Joseph Stiglitz, ha denunciato spesso la scarsa significatività di un indicatore unico che inglobasse tutte le misure del benessere, dalla salute all’istruzione, dal senso di comunità alla sicurezza. A livello teorico, nonostante gli encomiabili sforzi di Onu e Ocse, il nodo non è stato ancora sciolto. Eppure in molti Paesi (avanzati) il pressing di politica, accademia e opinione è diventato molto intenso: nell’era della sostenibilità, della coscienza verde diffusa e del nuovo capitalismo fondato sui parametri ESG, non è più accettabile ridurre lo sviluppo di un Paese alla produzione di beni e servizi. È solo questione di tempo: la direzione è tracciata, le colonne del Pil saranno superate.

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