SOSTENIBILITÀ, EURO-REGOLE SENZA SENSO ALLARME ROSSO PER LE AZIENDE

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È IL TRISTE DESTINO del legislatore, ad ogni latitudine. Può intervenire solo tardi, quando un fenomeno economico e sociale è già esploso. Ma se pretende di regolarlo ‘cavalcando’ le mode del tempo e rinunciando a ponderare gli effetti delle nuove norme, il suo ruolo diventa pericoloso. È ciò che potrebbe accadere proprio in tema di sostenibilità d’impresa, a seguito dell’approvazione (lo scorso 10 marzo) da parte del Parlamento europeo di una discutibile proposta di direttiva sulla responsabilità d’impresa.

Le nuove norme piombano all’interno di un dibattito internazionale infuocato sul modello più desiderabile di capitalismo e sulle strade per incentivarlo. Da una parte gli ‘apocalittici’, convinti che il punto di non ritorno nella gestione delle risorse del pianeta e degli squilibri sociali sia vicino. Nella loro visione, i sistemi normativi di corporate governance dovrebbero essere modificati radicalmente nel segno sostenibilità, piegando in questa direzione la stessa ragion d’essere delle società. L’archetipo di riferimento è costituito dalle società benefit, introdotto in Italia nel 2016, in cui nell’oggetto sociale l’obiettivo di fare profitto è affiancato dallo scopo di produrre un impatto positivo sulla società e sulla biosfera. Oggi è un’opzione volontaria nelle mani dell’imprenditore, domani (in questa visione) potrebbe diventare un modello vincolante.

Dall’altra parte ci sono i difensori “ortodossi” del profitto come paradigma esclusivo per le imprese, convinti che le aziende debbano operare nell’interesse degli shareholders (gli azionisti) e non degli stakeholders. Tra questi Franco Debenedetti, che ha di recente pubblicato un saggio intitolato ‘Fare profitti. Etica dell’impresa’: un’eccessiva attenzione delle imprese e del legislatore verso gli stakeholders, sostiene Debenedetti "sarebbe dannosa per shareholder, stakeholder e per la società tutta". Si tratta in entrambi i casi di posizioni estreme. Qualsiasi ragionamento sulla regolamentazione della sostenibilità non può che partire oggi da due dati di fondo: il profondo mutamento della coscienza collettiva e l’evidente spinta che i mercati internazionali stanno generando verso l’adozione da parte delle aziende dei fattori ESG – ambientali, sociali e di governance – per la gestione di lungo periodo delle imprese. Ma proprio in virtù della forza con cui soffia oggi il vento della sostenibilità, è ancora più importante mantenere un solido pragmatismo nel definire nuove regole.

Come segnala l’analisi di Marco Ventoruzzo dell’Università Bocconi su lavoce.info, la proposta di direttiva europea sulla responsabilità d’impresa sembra sbattere contro questo rischio. La nuova disciplina imporrebbe non soltanto alle imprese maggiori, ma anche a quelle di medie e piccole dimensioni il dovere di rispettare "i diritti umani, l’ambiente e le regole del buon governo" nei comportamenti dell’azienda e dei propri fornitori: peccato che questi diritti non siano precisati, ma che la direttiva rinvii a standard internazionali mutevoli e scivolosi in grado di aprire la porta ad interpretazioni dei tribunali di sconcertante varietà. Inoltre gli Stati dell’Unione dovrebbero costituire autorità pubbliche di vigilanza sulla materia, prevedere sanzioni amministrative a carico delle imprese e, soprattutto, introdurre una norma amplissima sulla responsabilità civile delle imprese, che sarebbero costrette a rispondere dei danni derivanti da potenziali o effettivi impatti negativi delle loro attività su diritti umani, ambiente e buon governo societario, rischiando la condanna qualora non riescano a dimostrare di aver impiegato standard di diligenza più severi di quella ordinaria.

Questo tipo di responsabilità dovrebbe far scattare l’allarme rosso del buon senso: sanzionare le imprese per "danni potenziali" è contrario a millenni di civiltà giuridica, così come invertire l’onere della prova ponendolo a carico delle imprese rischia di creare una forma di responsabilità oggettiva dell’impresa stessa. Se rendere le imprese (più) responsabili è il nostro obiettivo, la strada scelta dal Parlamento europeo è la peggiore possibile. Urge un profondo ripensamento, in tempo utile.

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