La lezione di Enrico Mattei per i tempi odierni

L'economista e storico Giulio Sapelli: «Sovranità energetica non significa autarchia, ma capacità di muoversi nella competizione globale»

«Nell’industria italiana ci sono due grandi figure. Una è stata una meteora, l’altra una cometa. La meteora è Adriano Olivetti, il cui lascito è per lo più intellettuale e il cui ciclo è però durato pochissimo, la cometa è Enrico Mattei, la cui eredità rimane ancora oggi». Giulio Sapelli, accademico, già docente di Storia economica alla Statale di Milano, con un’esperienza dirigenziale in diversi gruppi, disegna il profilo del fondatore dell’Eni con pochi, decisi tratti.

Chi era Mattei? «Mattei è totus politicus. Nasce piccolo imprenditore, diventa partigiano. E in questo impegno mette a frutto la sua abilità di uomo d'azienda. Cesare Merzagora (esponente liberale, banchiere, presidente del Senato per 14 anni, ndr) raccontava il suo ruolo fondamentale e pericoloso nel Comitato di liberazione dell’Alta Italia. Era lui, nel compito difficile di rappresentante della Democrazia cristiana, ad avvicinare le grandi famiglie della borghesia industriale del Nord e a portare i soldi ai combattenti. Leo Valiani (giornalista, antifascista fra i fondatori del Partito d’Azione e poi storico nome del Pri e senatore a vita, ndr) diceva di Mattei che aveva votato a favore della condanna a morte di Mussolini perché sapeva che se lo avessero catturato gli inglesi, in pochi anni si sarebbero ritrovati il duce fra i protagonisti della vita politica italiana».

Giulio Sapelli (a sinistra) ed Enrico Mattei
Giulio Sapelli (a sinistra) ed Enrico Mattei

Un politico pragmatico? «Un politico completo, con una capacità di leggere il futuro. A lui si deve la nascita della cooperazione internazionale italiana, inventata sulla scorta delle missioni».

La sua attenzione per il Terzo Mondo che è anche idea economica… «Mattei è il primo in Italia a capire che l’industria energetica è globale e internazionale. E intuisce quale può essere il ruolo chiave dello Stato. Non spinge per la creazione di un monopolio nell’importazione o nella vendita: l’Italia sarà sempre un mercato per le grandi compagnie internazionali. Quello che vuole è l'esclusiva statale nella ricerca e nell’estrazione, che garantisce competenza tecnica nella caccia agli idrocarburi e sicurezza energetica, ovvero approvvigionamenti».

A questo serve la nascita dell’Eni? «Il sistema produttivo e industriale del Nord era rimasto quasi integro dopo la guerra, a differenza di quello tedesco. Su questo si è costruito il boom economico: sull'export delle imprese italiane, prima che sul mercato interno. E la fornitura di idrocarburi a bassi prezzi ha assicurato un vantaggio competitivo alla nostra industria».

Ma come ci riusciva Mattei? «Intanto con un approccio diverso con i Paesi fornitori. Certamente attraverso le royalty perché Eni, un ente Statale che come tale ragionava, offriva ai produttori di petrolio la divisione al 50% degli utili generati dall’attività, cosa che gli altri non facevano. E poi perché non era solo un’operazione finanziaria, ma una partnership industriale. L’Italia offriva servizi e non solo un contratto».

Trasferimenti di tecnologia? «Tecnica italiana, esperienza italiana all’estero. In questo Mattei segue la Fiat, che già negli anni Trenta vendeva le littorine a Stalin. Ma penso anche all’esportazione di macchinari: le attrezzature per gli scavi a Baku vennero negli anni Cinquanta tutte dall’Italia. E oggi il gas dell’Azerbaigian, che arriva da noi attraverso il Tap, è ancora una grande risorsa strategica».

Ma in cosa risiede la grandezza di Mattei nell’economia e nella politica? «Nell’aver capito che quello degli idrocarburi è di per sé un oligopolio, cioè in questo campo il mercato non può bastare. La fornitura di energia è direttamente collegata alla potenza dello Stato. Non esiste un Paese che voglia un ruolo internazionale che non abbia controllo sull’approvvigionamento. Questo è un ambito tradizionale della cosiddetta economia mista pubblico-privata. Anche gli Stati Uniti hanno una legge che vieta l’esportazione di petrolio senza l’autorizzazione statale. In questi anni l’ideologia ha vinto sull’economia e ci si è illusi che il mercato potesse fare da sé».

E ora arriva la crisi del gas russo… «Siamo stati richiamati prepotentemente alla realtà».

Ma l’Eni creata da Mattei esiste ancora… «Sì, è stata conservata. Anche per merito dei suoi dirigenti. E mantiene sicuramente il patrimonio ideale del fondatore. Il peso di questo settore nelle politiche dello Stato, di uno Stato che vuole competere, è tale da imporre l’esistenza di una politica industriale. In questo torna anche il concetto di pianificazione. Perché la ricerca, l’estrazione di idrocarburi, come la tecnologia delle fonti di approvvigionamento, vecchie e nuove, richiedono programmazioni estese, investimenti di lungo termine. E questo obbliga a fare politica».

E qualcosa di questa attitudine c’è nel colosso energetico di oggi? «L’idea che Eni abbia creato in Lombardia il grande centro di calcolo di Sannazzaro, a Pavia, rappresenta proprio questo tipo di prospettiva».

Il modello Mattei. Eppure il fondatore dell’Eni non ha mai avuto dei buoni rapporti con l’industria privata… «Milano con lui è stata un po’ distratta. Ha dedicato una statua al suo più grande detrattore, Indro Montanelli, a Mattei invece… Diciamo che i grandi industriali, come Falck, l’hanno sicuramente amato. Molto meno la piccola borghesia».

D’altronde in politica è stato forse una figura divisiva… «Oltre i luoghi comuni sulla corruzione, Mattei è prima di tutto un politico. Parlamentare, fondatore di una corrente della Democrazia cristiana, la sinistra di base. Lui non fingeva, lui era la politica. E l’Eni, del resto, era l’Ente nazionale degli idrocarburi».

E alla fine qualcuno ha deciso che dovesse morire. «L’origine dell’attentato va cercata in Francia. Decisivo in questo l’apporto di Mattei all’indipendenza algerina. Ad Algeri, del resto, andò poco prima di morire. Dagli archivi emergono notizie importanti in questo senso. Del resto con le compagnie angloamericane il fondatore dell’Eni aveva trovato un accordo, garante proprio Eugenio Cefis. Poco prima dello schianto dell’aereo a Bascapè la Bbc gli dedicò un documentario, titolo: “An Italian Tycoon”. Lo definirono “profeta”. E Cefis della politica di Mattei fu il più valente continuatore. Ma in questo c’è anche un ragionamento politico a sostegno di questa tesi: l’attività dell’Eni e del suo vertice era profondamente anticolonialista. Erano inglesi e francesi a vivere del retaggio del proprio impero, come dimostrano sia la vicenda algerina che la crisi di Suez, seguita alla nazionalizzazione del canale da parte dell’Egitto del presidente Nasser. E gli americani in quel 1956 non appoggiarono i tentativi di intervento voluti da inglesi e francesi, come del resto Mattei fu dalla parte di Nasser».

A distanza di sessant’anni cosa resta della politica iniziata dal partigiano Mattei? «Rimane l’insegnamento di quello che fu un utopista realizzatore: per fare economia bisogna fare politica. La vera industria si basa su lunghe programmazioni e da solo il mercato non basta. La lezione è quella di pensare in grande. E che la sovranità e la sicurezza energetica non sono autarchia, ma capacità di muoversi nella competizione globale».