Il flop dei Navigator: 180 milioni di euro buttati, e ora si cambi

Il flop dei navigator

Il flop dei navigator

IL COMMISSARIAMENTO dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, annunciato (a più riprese) e oggi finalmente sulla rampa di lancio nel decreto Sostegni, è quel che si dice il minimo sindacale. La gestione grillina della struttura, affidata all’uomo del Mississippi, Domenico Parisi, si è rivelata uno dei più clamorosi flop della storia (molto poco edificante in sé) dei servizi pubblici per l’impiego in Italia. E, d’altra parte, date le premesse non poteva essere diversamente: la esiziale confusione tra politiche attive e contrasto della povertà, l’introduzione di uno strumento come il reddito di cittadinanza incondizionato di fatto nell’erogazione e sganciato da ogni reale prospettiva lavoristica, l’assunzione di circa 3 mila navigator in chiave clientelare e senza nessun collegamento con le stesse Regioni con quali dovevano lavorare, il decollo fallito di qualsiasi piattaforma digitale, per non parlare del conflitto permanente tra Stato e Regioni in questo ambito, ebbene, tutto questo ha prodotto i risultati che conosciamo. In sostanza, sono stati buttati 180 milioni di euro per i soli navigator, senza che la loro azione, come quella dei centri per l’impiego, abbia prodotto numeri di occupati o di avviati a vera formazione minimamente degni di essere presi in considerazione.

Dunque, ben venga il commissariamento e benvenga, semmai, la revisione radicale dell’impostazione fin qui seguita. Peccato, però, che sarebbe utile e opportuno che il premier Mario Draghi, così giustamente attento al debito buono e al debito cattivo, sia reso consapevole delle intenzioni del Ministro del Lavoro Andrea Orlando, perché molteplici segnali lasciano pensare che il commissariamento sia solo una sorta di spoil system in salsa piddina, senza che questo rappresenti la base per un vero cambiamento di impostazione. Tanto per essere più espliciti, ha poco senso sostituire Parisi con qualche burocrate ministeriale che all’ideologia grillina giustapponga quella classica della sinistra d’antan, tutta chiacchiere e distintivo sulle magnifiche sorti e progressive di un sistema pubblico che dai vecchi collocatori ai servizi per l’impiego di questi ultimi decenni si è rivelato costoso, ridondante, inutile, inefficace.

Il nodo è e rimane sempre lo stesso: serve una reale parificazione tra pubblico e privato, perché solo un meccanismo che metta in concorrenza i servizi pubblici e quelli di mercato può determinare quella svolta a lungo attesa che segni i risultati solo con il criterio della massimizzazione dei benefici per i disoccupati. Ogni altra soluzione si rivelerà fallace. E, allora, possono anche avere un senso le oltre 11 mila nuove assunzioni ipotizzate per i centri per l’impiego, a condizione che non siano solo una nuova infornata di navigator a spese del contribuente, ma un rafforzamento effettivo del pubblico in un’ottica di piena cooperazione con il privato. Deve, però, essere chiara una consapeveolezza. Per ottenere risultati servono disegni coerenti e lungimiranti. Non assunzioni pubbliche a gogo. Per capirci, per realizzare il Piano Hartz di riforma dei servizi per il lavoro, nella Germania di Gerard Schröder, ci sono voluti quattro-cinque anni agli inizi del secolo. Da noi, che notoriamente siamo messi meglio dei tedeschi quanto a Pubblica amministrazione (si fa per dire), i "fenomeni" grillini e, soprattutto, i loro consiglieri, hanno ritenuto, invece, che l’operazione potesse essere compiuta in quattro-cinque mesi. Con la conseguenza che i destinatari del bonus sono rimasti bloccati nella trappola di un assistenzialismo senza sbocchi lavorativi perché i servizi erano ancora tutti da costruire. E non è certo la pandemia a poter fare velo a una macchina che per sua constituency non avrebbe mai potuto girare.

E così si torna all’inizio di queste considerazioni. Il commissariamento dell’Anpal sarà utile tanto più quanto più esso rappresenterà la premessa per la realizzazione di un disegno riformatore fondato sulla concorrenza-cooperazione pubblico-privato che veda il disoccupato al centro e non, invece, la conservazione di un assetto pubblicistico dei servizi per il lavoro non solo antiquato e ideologico, ma anche vanamente produttivo e efficiente in termini di performace.