"LA CRESCITA È REALE, L’EXPORT GUIDA LA RIPRESA"

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"ERANO ALMENO 10 O 13 ANNI che non vedevo la nostra economia andare così bene". Lucio Poma (nella foto in basso), capo economista della società di consulenza Nomisma non nasconde il suo ottimismo sull’andamento del Pil italiano, che a suo dire nel 2021 potrebbe salire anche più del 5% previsto dagli analisti, distanziando di quasi due punti la crescita tedesca. "Non siamo soltanto un Paese in ripresa dopo la recessione della pandemia –, dice Poma –, siamo un paese che vive una vera e propria fase di crescita, nel senso che diversi indicatori sono tornati ai livelli del 2019, precedenti alla pandemia".

Benissimo. Ma lo scorso anno il nostro Pil era letteralmente crollato…

"È vero. Ma devo dire che in certi settori l’economia italiana, nonostante il lockdown, ha dimostrato forza e solidità anche nel 2020".

Cos’è che oggi traina la ripresa?

"Soprattutto l’export, che sta viaggiando con il vento in poppa. Per rendersene conto basta analizzare un dato. Mentre il prodotto interno lordo è visto in aumento di circa il 5% su base annua, l’inflazione dovrebbe rimanere tutto sommato su livelli contenuti, attorno all’1,9%. Negli Stati Uniti, invece, il caroprezzi ha fatto un balzo fino a 5 punti percentuali".

Dunque?

"Ciò significa che, mentre in America la ripresa economica è spinta soprattutto dai consumi, qua da noi a fare da traino sono appunto le esportazioni, che sono la vera grande forza dell’economia nazionale".

Per molto tempo l’economia italiana è rimasta ferma al palo, per carenze che gli analisti hanno sempre definito strutturali. Perché oggi questi fattori pesano meno?

"Vede, le ragioni che mi portano a essere ottimista sono molte. Innanzitutto dobbiamo fare una considerazione di partenza: l’Italia è un grande paese manifatturiero che ha come corrispondente in Europa solo la Germania. Se prendiamo certi settori come la meccanica avanzata, il packaging, il comparto farmaceutico, dobbiamo necessariamente confrontarci in gran parte con i tedeschi e non con i francesi o gli spagnoli. Tuttavia, mentre le aziende tedesche hanno dimensioni maggiori e producono di solito numerosi lotti di un singolo macchinario o prodotto, le imprese italiane sono specializzate più su produzioni su misura, in numero limitato e in risposta alle richieste specifiche del cliente. Di un singolo macchinario per esempio, sono capaci di produrne soltanto 3 o 4 lotti".

Che significa tutto questo?

"Vuol dire che le aziende italiane, proprio per questa loro struttura snella e per questa loro flessibilità, hanno tutte le potenzialità per adattarsi allo scenario attuale, caratterizzato da cambiamenti impetuosi che la pandemia del Covid-19 ha accelerato notevolmente, soprattutto per quel che riguarda l’adozione di tecnologie digitali. L’avvento di Industria 4.0 sta portando cambiamenti profondi e molte imprese italiane hanno investito su questo fronte".

Gli incentivi degli anni passati cominciano a dar frutti?

"In molti casi sì. I piani di Industria 4.0 e Impresa 4.0 sono stati gli unici veri programmi di politica economica degli ultimi anni anche se ci voleva forse un passo in più. Si è scelto di aiutare le imprese che innovano con agevolazioni fiscali come l’iperammortamento, che è stato utile ma è andato a beneficio anche di aziende che già avevano intenzione di fare certi investimenti. Faccio un esempio facendo riferimento al mondo universitario: a uno studente bravo, io non posso dare più di 30 e lode perché un voto più alto, oltre a non essere possibile, non gli servirebbe a nulla. Diverso è invece spingere a migliorarsi e ad arrivare al 30 e lode uno studente che partiva da un livello un po’ più basso. Ecco, con le imprese dovremmo fare questo: oltre agli sgravi fiscali, ci vuole in certi casi anche qualche contributo a fondo perduto. Ora, con l’arrivo del Recovery Fund, abbiamo le risorse e l’opportunità di muoverci in questa direzione".

A proposito di Recovery Plan, è fiducioso sui suoi effetti?

"Se non commettiamo errori sono convinto che abbiamo davvero l’opportunità di essere in questa fase un paese leader in Europa, non solo per il fatto di essere guidati da un uomo come Mario Draghi ma anche per quei cambiamenti che hanno avuto un’accelerazione durante la pandemia".

L’emergenza del Covid-19 ha fatto crescere anche un sentimento contrario alla globalizzazione dei mercati. È d’accordo?

"Credo sia un errore voler contrastare un processo come la globalizzazione. Paesi come la Germania e l’Italia sanno bene che la Cina è per loro un grande partner commerciale e lo hanno fatto anche intendere al presidente americano Biden durante il G 7. Credo invece che l’Europa debba lavorare per ricostruire quelle che vengono chiamate catene del valore".

Cosa sono?

"Mi spiego meglio con qualche esempio. Oggi l’industria europea ha bisogno di materie prime che però, in un mondo che si sta rimettendo velocemente in moto dopo la pandemia, rischiano di scarseggiare. E allora mi chiedo: quando l’Europa penserà di dotarsi di grandi magazzini di stoccaggio di certe commodity quale il rame, come quelli che ci sono in Cina? Oppure, quando penseremo anche a dotarci di quei principi attivi dei medicinali che oggi ci vengono forniti dall’India e che, durante la pandemia, hanno rischiato di essere carenti nella nostra industria farmaceutica? Io credo che per far fronte a certe necessità lo Stato debba avere un ruolo da attore, non solo da regolatore".