"IL RECOVERY CREI CENTRI DI RICERCA IN COMPETIZIONE"

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L’INIEZIONE DI FONDI DEL PNRR sarà "un’ottima opportunità" per la ricerca italiana, ma "non bisogna limitarsi a finanziare progetti di breve durata, costretti nei sei anni del piano", sostiene Giorgio Metta, numero uno dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Come uscire da questa cornice limitata?

"Ci sono due compiti da svolgere: da una parte lo Stato dovrebbe immaginare un sistema per rendere questi finanziamenti permanenti, dall’altro la ricerca italiana dovrebbe diventare più produttiva e più attrattiva per dei finanziamenti europei. La mia proposta per rendere questa iniezione permanente è di usare i fondi del Pnrr come capitale iniziale per sviluppare nuovi centri di ricerca fortemente competitivi. Solo in questo modo li faremo fruttare anche in futuro, sfruttando l’occasione per un vero e proprio cambio di passo per la ricerca italiana".

In pratica, lei propone di create tanti Iit?

"Esattamente. Ormai si è dimostrato che il nostro modello funziona: siamo riusciti a portare moltissimi talenti dall’estero, sia italiani che stranieri; abbiamo costruito un’infrastruttura di ricerca importante, con macchinari e laboratori allo stato dell’arte, che comunque va di pari passo con l’attrazione dei talenti; e poi facciamo attività di trasferimento tecnologico e abbiamo rapporti con centinaia di aziende, tanto che un 30% del nostro budget arriva da progettualità esterna e in alcuni settori anche di più. Ad esempio nella robotica, per ogni euro che mette lo Stato noi generiamo un altro euro da finanziamenti esterni".

E come si dovrebbe strutturare questa "gemmazione"?

"Si potrebbero creare diversi istituti sul modello del nostro, concentrati su tematiche diverse. Non è che dobbiamo per forza occuparci tutti di robotica. Possiamo immaginare tematiche importanti per il Paese, in primis le tecnologie per la sostenibilità, l’energia, l’agrifood, tutti temi peraltro molto citati nel Pnrr. Ci aggiungerei l’intelligenza artificiale, che non è citata nel Pnrr ma credo sia un tema importante, da non dimenticare. Da queste diverse branche poi potrebbe nascere una ‘federazione’, con la possibilità di fare massa critica ancora più importante".

Non diventa un Cnr-bis?

"Con un modello radicalmente diverso, però. Il nostro modello è molto internazionale e i ricercatori che vengono da noi sono assunti molto raramente a tempo indeterminato e fanno un percorso, come quello americano, della tenure track, dove il ricercatore arriva e poi deve dimostrare nei 6-7 anni successivi di saper attirare fondi e di pubblicare bene, insomma tutte le cose che si usa fare negli istituti di livello internazionale. I ricercatori che arrivano a superare tutte le barriere vengono confermati a tempo indeterminato, ma sono pochi. La maggior parte stanno qualche anno, diventano anche bravi, ma poi cercano altre strade, il che è normale nel mondo della ricerca, che dev’essere molto flessibile".

E come la mettiamo con gli altri istituti di ricerca?

"A mio parere bisogna avere il coraggio di copiare i modelli internazionali che funzionano. Noi l’abbiamo fatto, guardando agli istituti del mondo anglosassone e pensiamo di aver fatto bene, perché quello della tenure track è un modello chiaro, tutti i ricercatori lo capiscono, vengono da noi e sanno già da prima quello che potrà essere il loro percorso di carriera e che si devono impegnare per conseguire un certo tipo di risultati. Bisognerebbe vedere se si riesce a implementare lo stesso tipo di meccanismo in altri instituti. È una sfida non da poco e si rischia d’infilarsi in un ginepraio, perché c’è una storia, c’è un pregresso, ci sono normative, di tutto e di più. Certo è che sarebbe sano ripensare i percorsi di carriera anche in altri pezzi della ricerca pubblica italiana. Capisco però che ci vuole molto coraggio per fare riforme di questo tipo".

A parte la ricerca pura, il Pnrr offre opportunità notevoli anche per la ricerca applicata...

"Certo, ci sono parti importanti del Pnrr, come la transizione ecologica o la salute, dove c’è moltissima ricerca applicata da fare, perché in questi campi sono soprattutto le aziende che dovrebbero innovare per uscire da questa crisi con slancio".

E qui si apre il tema del trasferimento tecnologico, che in Italia funziona male...

"Ci sono pochi centri di ricerca in Italia che si occupano di trasferimento tecnologico, in primis i Politecnici, ma la massa non trasferisce abbastanza. Devo dire che storicamente non era neanche una missione: quando ero ricercatore all’università non se ne parlava nemmeno, mentre oggi è normale dare ai ricercatori anche questo obiettivo come un compito importante. Questo è stato un enorme cambiamento culturale, perché se dici al ricercatore di avere in mente nella sua ricerca anche le applicazioni industriali, lui lo fa. Per noi ha funzionato".

E per gli altri?

"Per gli altri bisogna un po’ capire se questo cambiamento culturale riuscirà ad affermarsi. Ad esempio adesso c’è Cassa Depositi e Prestiti che sta avviando delle iniziative di venture capital per il trasferimento tecnologico. Non è uno dei soliti fondi, ma proprio un fondo mirato ad andare a cercare le tecnologie e aiutarle a sbarcare sul mercato. Speriamo che iniziative di questo tipo si moltiplichino".