GABBIE GIGANTI E TRAVI RECORD, CIMOLAI LE HA FATTE GROSSE

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NON SERVE scomodare i Vangeli e il loro ‘nemo propheta in patria’ per inquadrare una stortura tutta italiana: quella cioè di non sapersi innamorare dei propri campioni, in ossequio a un provincialismo duro a morire che forse nemmeno la pandemia riuscirà ad abbattere. La storia è semplice ed educativa insieme. C’è un’azienda di Pordenone, la Cimolai Spa, che da oltre 70 anni fa una cosa in modo eccellente: progetta e realizza strutture complesse in acciaio. Fattura oltre 500 milioni e dà da lavorare a più di 3mila persone. È una multinazionale tascabile che nei giorni scorsi – è proprio il caso di dirlo – l’ha fatta grossa. Ha completato a Kitimat, nella regione del British Columbia in Canada, la costruzione di quattro moduli per l’alloggiamento di alcuni macchinari per il trattamento del LNG, il gas naturale liquefatto.

‘Gabbie giganti’, quelle realizzate da Cimolai: 21 metri di larghezza, 26 di altezza e 73 di lunghezza, con un peso complessivo di oltre 6mila tonnellate. I committenti sono particolarmente rilevanti: il capofila è Baker Hughes, colosso da oltre 30 miliardi di fatturato, che funge da numero uno del consorzio LNG Canada, che vede la partecipazione di Shell, Petronas, Petrochina, Mitsubishi Corporation.

Per realizzare i quattro moduli, Cimolai ha dovuto far lavorare tutti gli stabilimenti in Friuli, soprattutto quello di San Giorgio di Nogaro dove è avvenuto l’assemblaggio delle strutture. Ma non basta. La scorsa settimana l’azienda guidata da Luigi Cimolai ha annunciato di aver conquistato un autentico record mondiale: ha realizzato le due travi di acciaio più grandi al mondo (170 metri di lunghezza e 6.500 tonnellate di peso ciascuna) che saranno installate sulla nave Pioneering Spirit (realizzata da Allseas, con 382 metri di lunghezza e 124 di larghezza, e un milione di tonnellate di stazza al massimo pescaggio, è una delle più grandi al mondo) come parte del sistema di sollevamento delle piattaforme e delle condutture petrolifere. Un’opera particolarmente complessa che ha richiesto l’impiego di oltre 1.000 persone. Il valore della fornitura, non dichiarato ufficialmente, dovrebbe aggirarsi intorno ai 100 milioni. Di fronte a queste commesse, ultime di una lunga serie che si snoda in 70 anni di attività, sarebbe lecito attendersi in Italia almeno altrettanto apprezzamento per quanto realizzato di quanto Cimolai ne abbia all’estero.

Giusto? Sbagliato. Perché la Cimolai è la stessa azienda che deve patire su due fronti, il Mose e l’Ilva, che rappresentano altrettanti orrori nazionali. Per l’opera veneziana, che avrebbe dovuto essere definitivamente conclusa già da alcuni anni ed invece è ancora in ballo, Cimolai patisce due volte: è creditrice per i lavori fatti ma non viene pagata, ed è immersa in un contenzioso che rimbalza tra Tar e Consiglio di Stato per la gara per la futura manutenzione delle paratoie, che chissà quando finirà. L’altra vicenda è quella dell’ex-Ilva, dove Arcelor Mittal Italia tra la fine del 2020 e l’inizio di quest’anno ha deciso di recedere dal contratto per la copertura dei due parchi, minerali e fossili, dell’area siderurgica di Taranto, quando ormai il lavoro realizzato da Cimolai era quasi completato.

Si tratta di un’opera fondamentale per la vita di Taranto, con un intero quartiere, il Tamburi, che deve addirittura chiudere le scuole quando, nei giorni di vento, le polveri prodotte dagli scarti di lavorazione rischiano di provocare danni enormi alla popolazione. Cimolai si è offerta di completare l’opera nonostante il contenzioso, visto che l’avanzamento lavori era del 99,5% per il parco minerali e del 96% per quello fossili. E a quel livello sono nel frattempo rimasti. E quello di Cimolai è solo uno dei molti esempi che si potrebbero fare di ’aziende Penelopi’ che, per parafrasare la regina di Itaca, si trovano costrette a disfare in patria ciò che di grandioso costruiscono in giro per il mondo.

Marco Scotti