Draghi-Meloni, grande gelo? Per nulla. Passaggio di consegne nel segno del fair play

Tra governo entrante e uscente una collaborazione che appare inedita. Come nelle democrazie mature. In Italia non è stato sempre così

L’ultima schermaglia tra Giorgia Meloni e Mario Draghi sul Pnrr, più mediatica che reale, non può far da velo alla constatazione ormai acquisita di una transizione (e non solo) nel segno della collaborazione piena tra i due governi. Un inedito per un Paese abituato a vedere premier entranti e uscenti guardarsi in cagnesco, al limite della pubblica avversione.

Non si tratta di immaginare fantomatici patti segreti o accordi riservati tra la leader di Fratelli d’Italia e l’ex numero uno della Bce, come anche qualcuno ha ipotizzato. Magari con scambi di promesse su appoggi per future nomine a questa o a quella carica. Più semplicemente e linearmente basta pensare che, di fronte a emergenze epocali come quelle che stiamo attraversando, il senso dell’interesse nazionale e la comune divisa repubblicana possono essere più che sufficienti a spiegare comportamenti e azioni fondati sulla consapevolezza di dover lavorare per il bene del Paese e della sua comunità.

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È, in fondo, quello che è accaduto e accade in queste settimane di passaggio di poteri. Draghi si è mosso nella prospettiva di una transizione produttiva, solerte, efficace, che non facesse rischiare all’Italia contraccolpi sui mercati o determinasse vuoti di responsabilità nei consessi europei e internazionali. Anzi, si è spinto fino al punto di rassicurare le cancellerie del mondo, ancor prima dell’esito del voto, sulla affidabilità di qualsiasi governo sarebbe uscito dalle urne, ben sapendo quali potessero essere i risultati.

La Meloni, a sua volta, ha mantenuto e mantiene un profilo di leale e fattiva compartecipazione alle scelte di Palazzo Chigi, pur essendo stata all’opposizione. Non un veto, non una riserva è venuta dalla premier in pectore alle decisioni di Draghi sui due principali dossier della drammatica stagione nella quale siamo immersi: l’energia e la guerra russo-ucraina. Tant’è che su entrambe le delicate partite distinguo e perplessità arrivano da altri partiti che sono stati in maggioranza fino a un mese fa e che hanno ancora ministri presenti in carica.

E, anzi, anche su un terreno potenzialmente e concretamente divisivo, come è il Pnrr, a ben vedere Draghi, se da un lato ha puntualizzato sull’ampiezza dei traguardi raggiunti e sull’assenza di ritardi di attuazione a oggi, dall’altro, non ha mancato di garantire anche per il futuro: "Spetta ovviamente al prossimo governo continuare il lavoro di attuazione, e sono certo che sarà svolto con la stessa forza ed efficacia".

A questo punto conta davvero poco interrogarsi sui retroscena di quello che pure è stato chiamato l’asse Draghi-Meloni. Vale certo di più sottolineare la novità positiva per il Paese. Abbiamo ancora davanti agli occhi l’uscita rabbiosa e polemica di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi alla fine del suo governo giallo-rosso. Così come rammentiamo il gelo totale durante la cerimonia del passaggio della campanella tra Enrico Letta e Matteo Renzi: e si trattava di due esponenti addirittura dello stesso partito. Né si ricordano transizioni "gentili" per i passaggi tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Meno che mai tra Prodi e Massimo D’Alema nel ’98. Mentre siamo sicuri che per Draghi e Meloni le immagini dello scambio di consegne tra qualche settimana a Palazzo Chigi trasmetteranno l’idea di un clima e di un’aria differenti. E nuovi.