Se la verità altro non è che un gioco di specchi

Faccia a faccia con la propria verità. Cui non si sfugge. Tra senso dell’onore e sentimenti d’amore, bisogno di libertà per essere davvero un artista e faticose responsabilità

Milano, 11 giugno 2017 - Faccia a faccia con la propria verità. Cui non si sfugge. Tra senso dell’onore e sentimenti d’amore, bisogno di libertà per essere davvero un artista e faticose responsabilità. Soldato, pittore o donna visionaria che tu sia. Tutti nel cuore di quella contraddizione che è comunque la vita. Lo confermano le pagine che Ben Pastor anima ancora con il suo personaggio, Martin von Bora, ufficiale della Wehrmacht, negli anni durissimi della Seconda Guerra Mondiale. Qui, in “Il morto in piazza”, Sellerio, il tenente colonnello Bora, dopo le avventure che l’hanno visto protagonista in Spagna, Polonia, Francia, Russia, Italia, è alle prese con la ricerca di alcune lettere segrete di Mussolini, che possono cambiare la lettura e il corso della storia. È la tarda primavera del 1944, le truppe tedesche fuggono da Roma. Il conflitto è a una svolta. E Bora è spedito in Abruzzo, per recuperare quei documenti ricercati ossessivamente anche dai servizi di spionaggio inglesi e dalle SS (che odiano Bora e sospettano di alcuni alti ufficiali dell’esercito, ostili a Hitler). Lì, a Faracruci, tra le montagne, nasce l’amicizia tra Bora e l’avvocato Borgonovo, un antifascista mandato al confino, che custodisce le lettere così preziose. Non importa qui raccontare la fine. Ma mettere in luce il dilemma di Bora, diviso tra la verità del suo dovere di soldato tedesco e il disgusto per gli orrori della guerra. Rileggendo Ovidio, quando sostiene che “la gloria di Ettore fu possibile solo attraverso la tragedia della sua patria”.

La verità è come gioco di specchi, tra visioni tacciate di follia e sentimenti sinceri. Come succede a Lucia Salvo, in “Il morso” di Simona Lo Iacono, Neri Pozza. Ha sedici anni appena. Ed è serva, in una nobile casa della Palermo del 1848. Intelligente, capace di leggere e ascoltare, si ritrova per caso nel cuore dei moti liberali che agitano la città, contro i Borboni e i reazionari baroni siciliani. E segue la voce della coscienza, anche se dolorosa. Per innamoramento d’un cospiratore. E gusto della libertà. Sarà incarcerata, come pazza. E si ritroverà, perché “ha capito che la pazzia è la cosa più rassicurante che esista, la più fraterna, la più comprensibile”. L’altro volto della verità. Doppiezze. Che ricorrono nelle pagine di “La parola del padre” di Ermanno Rea, per Manni. Nato come canovaccio d’uno spettacolo teatrale, con uno storyboard di Lino Fiorito, il libro è un monologo in cui l’Inquisitore ricostruisce l’interrogatorio di Caravaggio, accusato di libertinaggio ed eresia, mancato rispetto per la Chiesa e passioni eccessive per popolani, ladri e prostitute, messi al centro dei suoi quadri, in vesti sacre. Ed è lucida e accurata riflessione sull’autorità, il potere, la ragione critica. E la libertà. Anche nella ricerca del volto di Dio, personalissima ansia di verità: “Noi pittori ci prendiamo le stesse licenze che si prendono i poeti e i matti…”.