L’anima della Sicilia e (tante) altre storie

La biografia di Tomasi di Lampedusa e i romanzi di due scrittori della nuova generazione

Sicilia come metafora. D’altri mondi anch’essi sospesi tra inquietudine, dolore e ironia, luminosità e lutto, pesantezza d’una controversa storia e fatica di pensare al futuro (che infatti, nelle forme verbali del dialetto, non c’è). Ne è stato interprete straordinario Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di cui Simona lo Iacono ricostruisce infanzia e prossimità della morte, in un libro di raffinata qualità di scrittura e penetrante capacità d’indagine psicologica, intitolato “L’albatro” e pubblicato da Neri Pozza. L’albatro, come l’uccello marino che accompagna i viaggi dei marinai. L’exergo è in una frase di Leonardo Sciascia, “L’indizio della verità è sempre nel rovescio di ogni parola”. E appunto al rovescio ragiona Antonno, l’immaginario compagno di giochi e fantasie di Giuseppe Tomasi bambino, disvelando così preziose lezioni di vita, dietro i silenzi degli adulti. Ricordi, nelle vacanze del palazzo di famiglia a Santa Margherita Belice. E diario della malattia e dei rimpianti, negli ultimi giorni di vita, nel luglio caldo della Roma del 1957. “Il Gattopardo” è lì, capolavoro ancora incompreso dagli editori. La malinconia incombe. Per salvarsene, un pensiero luminoso: «C’era una risposta alla morte, ed era la poesia. C’era un rimedio al tempo, ed era la scrittura». C’è anche un’anima nera, nella Sicilia metafora.

Ne sono sempre straordinari interpreti i suoi scrittori. E le sue scrittrici, come Cristina Cassar Scalia, in “La logica della lampara”, Einaudi. Ecco una ragazza di vita lussuosa e ambizioni sfrenate, che improvvisamente sparisce. Un avvocato torbido, maestro di intrighi tra legalità e affari criminali. E una poliziotta, Giovanna Guarrasi detta Vanina, palermitana che ama inusualmente Catania e indaga, senza cedere alle soluzioni facili che celano false piste. La Sicilia è così, contorta, mai limpida. Amante amata esigente. Come una vita che merita intensità. E un filo d’ironia. Si gioca d’ironia anche in “La morale del centrino” ovvero “come sopravvivere a una mamma siciliana”, di Alberto Milazzo, Sem. Ombre d’infanzia. Sentimenti rattenuti. Una costante aria d’infelicità sospesa sui gesti quotidiani e sulle speranze di futuro. Lei, la madre, è chiamata Manon, come la protagonista dell’opera di Giacomo Puccini, una vita sconvolta tra i desideri mondani e la condanna a farsi monaca. Ed è l’impossibilità a essere felici, e soprattutto il dolersene, la chiave della la storia, perché «la lamentela è un’arte del vivere». Ma è davvero così? Forse, l’esibizione dell’infelicità non è che un paravento da abbattere, per disvelare quanta forza di vita ci sia nelle storie d’amore, in quell’appassionata condizione metaforicamente siciliana in cui una cosa significa il suo opposto. Come dimostra un matrimonio gay in cui si mangia benissimo, tra un timballo di anelletti e il trionfo della cassata: «Ed è così, dottore, che mio figlio mi ha rovinato definitivamente l’esistenza: rendendomi felice».