Kaos in tour con dj Craim: "La musica è valvola di sfogo. Ecco Chiodi, mio album-terapia"

Marco Fiorito: in queste prime tappe ho avuto una strizza tremenda, mai vissuto una pausa così

Kaos, al secolo Marco Fiorito

Kaos, al secolo Marco Fiorito

Parole come chiodi: dritte, ferme, spigolose. Rischiano di ferire, d’accordo. Ma a farci un po’ di attenzione, ci tieni in piedi un’intera casa. E infatti è un lavoro di cicatrici e di ricostruzione il nuovo album di Kaos (Marco Fiorito), fra i più belli degli ultimi mesi. Non solo per quanto riguarda il rap, frequentato da trenta e qualcosa anni, quella voce hardcore a segnare il genere in Italia. Il successo di "Chiodi" ha rimesso il Kaos al centro del villaggio. E ora il tour. Al suo fianco dj Craim. Mentre prima di loro sul palco Corre der Fomento e DSA. Stasera l’appuntamento è alla Festa di Radio Onda d’Urto a Brescia. Il 9 settembre a Milano, al Magnolia.

Marco, qual è stata la spinta per tornare a registrare?

"L’album è una sorta di terapia, mi ha permesso di mettere in luce delle cose, anche a me stesso. La musica è una valvola di sfogo. Ma in questo periodo è stata una vera alternativa per non crollare".

Non fa paura guardare in fondo al pozzo?

"Molto. Poi più vai avanti con questo mestiere di parole e di emozioni, più sono i punti in cui rischi di non riuscire a tornare in superficie. Figurati quando diventa un’ossessione che spinge all’alienazione, a subire un po’ le conseguenze di un lavoro in cui c’è sempre una parte che ti rimane addosso senza arrivare al pubblico. E quelli sono fatti tuoi, per quanto sia forte la percezione del giudizio esterno".

C’è una traccia a cui sei più legato?

"“Chiodi“ è l’elaborazione di un abbandono, di una crisi reale che ha lasciato cicatrici prima che il covid aggiungesse le sue. Sono un po’ stupito di essere riuscito a usare certe immagini. E poi “Ultima Necat“ in cui dialogo con il mio alter ego, anche se ormai non so più chi sia l’originale, se la parte pubblica o quella privata".

Che momento è per la scena rap in Italia?

"Non te lo so dire. Non seguo molto la musica. Mi concentro sul mio e sui live, che sono una grande motivazione. A parte i lavori degli amici. Però so che ci sono nuovi generi di cui conosco molto poco. Ragazzi che non usano più le rime e che hanno grandi doti di marketing, già in tenera età. Non appartengo a questa generazione, appartengo a quella prima, una generazione abbastanza sparita, che non ha avuto un’esistenza facile. Fummo piuttosto ignorati".

Come sono stati i tuoi inizi? "Provenivo da altre discipline legate all’hip hop. Considero Deda e Neffa i miei mentori, la loro eredità continua ad accompagnarmi. Io usavo ancora l’inglese, mi fecero capire che la transizione all’italiano era dura ma si poteva e si doveva fare. Con una lingua straniera rischiavo di concentrarmi solo sulla metrica mentre loro riuscivano già a condividere immagini ed emozioni. E poi i Colle der Fomento, il mio faro negli ultimi quindici anni. Persone splendide".

Bello tornare sul palco?

"In questi primi concerti ho avuto una strizza tremenda. Ero abituato a stare fermo al massimo un mese, sempre in giro a battere la provincia. Mai vissuta una pausa così lunga, è un colpo proibito per la self confidence di chiunque. Ripasso i testi, le scalette, c’è del materiale da testare, i palchi sono grandi. Sta andando molto bene. Ma ogni volta si combatte per non farsi divorare dall’ansia".