Irene Grandi: "A 15 anni ho visto la luce. Folgorata da The Blues Brothers"

Questa sera al Parco del Garza di Nave sotto l’egida del River Blues Park: il 14 a Milano

Irene Grandi

Irene Grandi

Brescia - Diceva Jimi Hendrix che il blues è semplice da suonare, ma difficile da provare. Irene Grandi questo lo sa e così nello spettacolo con cui approda stasera al Parco del Garza di Nave sotto l’egida del River Blues Park (per poi proseguire il 12 alla volta di Mantova e il 14 del Polimifest in Piazza Leonardo da Vinci a Milano), dà voce ad un sentimento che si porta dentro da bambina. "Da quando al cinema, assistendo al primo ‘The Blues Brothers’, ho visto la luce pure io" scherza, ricordando lo shock che le provocò la fortunata pellicola di John Landis. "Avevo quindici anni e per la prima volta mi sentii travolta dalla passione per la musica". Ora è in missione per conto di Dio pure lei. Dopo il musical "The Witches Seed" con le musiche di Stewart Copeland, "Irek" torna infatti al primo amore, affiancata da Massimiliano Frignani alla chitarra, Piero Spitilli al basso, Fabrizio Morganti alla batteria e il veterano Pippo Guarnera all’Hammond.

«Io in blues» si apre con «Why can’t we live together» di Timmy Thomas. Perché?

"Perché di quel pezzo ha fatto una bellissima cover Sade, la mia cantante preferita; anzi, il mio mito assoluto, di cui ricordo in particolar modo l’esecuzione sul palco del Live Aid. Eseguirla in apertura di serata mi consente di legare immediatamente lo spettacolo alle mie passioni giovanili, trasformandola così in una specie d’introduzione da cui passo a ‘Something’s got a hold on me’ di Etta James".

Ma il blues per lei è più quello selvatico, dissacrante e disperato di Robert Johnson o quello metropolitano, borghese ed elegante di George Gershwin? .

"Amo tantissimo entrambi. Uno, infatti, è il blues delle radici, quello classico col giro in 12 battute, mentre l’altro è quello che, degradando verso il soul, porta a personaggi come Curtis Mayfield o Marvin Gaye. Dovendo scegliere, diciamo che io tendo un po’ più verso il secondo".

Perché?

"Volendo abbracciare pure qualcosa del repertorio italiano, compreso il mio, non posso essere troppo purista. Il pezzo più blues in scaletta è probabilmente ‘Little red rooster’ di Willie Dixon".

Di italiano rilegge pure cose di Pino Daniele e Lucio Battisti.

"Pino è Pino, ma anche Battisti ha pescato molto dalla musica afroamericana. Basta pensare a ‘Il tempo di morire’ che faccio assieme a ‘Se la mia pelle vuoi’".

Entro il mese manda in radio la cover di «E poi…» che esegue in concerto.

"Sì, ho già realizzato il video. Forse quel pezzo è un po’ meno blues di altri in scaletta, ma l’Hammond di Guarnera gli conferisce le colorazioni giuste e al pubblico piace molto".

A proposito, dovendo avvicinare Mina ad un gigante della musica americana, chi sceglierebbe?

"Ella Fitzgerald".