Vittorio Grigolo: ecco l’Italia in 18 arie d’opera che il mondo ci invidia

E' un "film" di storia patria quello che questa sera Vittorio Grigolo srotola nella cornice Settecentesca del “Fraschini” di Pavia (con replica a Brescia il 5 ottobre) abbinando 18 arie d’opera ad altrettanti momenti di vita

Vittorio Grigolo

Vittorio Grigolo

Pavia,13 settembre 2016 Ci sono pure Anita Ekberg e il suo botticelliano bagno nella Fontana di Trevi a raccontare gli anni della Dolce Vita nello slancio operistico di “Italia. Un sogno”, il “film” di storia patria che Vittorio Grigolo srotola questa sera nella cornice Settecentesca del “Fraschini” di Pavia (con replica a Brescia il 5 ottobre) abbinando 18 arie d’opera ad altrettanti momenti di vita. Potere della lirica, dove ogni dramma è un falso, ma pure di un carattere che a 39 anni fa di Grigolo una delle nostre voci più titolate al mondo. Lui dice di sentirsi innamorato e tormentato come il Werther incarnato alla Royal Opera House di Londra tre mesi fa, con la direzione di Antonio Pappano, anche se poi ammette che la sua Lotte è molto meno inarrivabile di quella raccontata da Goethe; perché fa la produttrice di vino tra la Toscana e la Lombardia e c’è pure il fuoco di questo legame dietro la scelta di rimanersene un mese intero di qua dalle Alpi con “Italia. Un sogno”, mirabolante festa del belcanto affrontata, tra proiezioni tridimensionali, mimi, coristi e voci di rilievo (a cominciare dal soprano romeno Mihaela Marcu), col sostegno dell’Orchestra Sinfonica di Asti diretta da Alberto Meoli e la regia dell’inglese John Pascoe. Un viaggio attraverso il melodramma dei Verdi, dei Rossini, dei Respighi, dei Cilea, dei Leoncavallo, dei Puccini, che non riesce a soffocare del tutto, però, quella “sehnsucht”, quello struggimento wertheriano, che Grigolo giura di portarsi dentro.

Questo spettacolo assomiglia a un “musical lirico” o qualcosa del genere.

«L’opera non è morta, ma ha bisogno d’individuare nuove strade, di trovare nuovi linguaggi, per diffonderne i contenuti. E questo format ha una natura pedagogica che spero di esporre pure al ministro Franceschini; mi piacerebbe, infatti, portarlo nelle scuole. Gli stranieri osannano la nostra musica al pari della cucina, del design, della moda, delle auto, mentre noi tendiamo a esaltare anche assolute mediocrità, purché estere».

È vero che non nascono più le grandi voci di un tempo?

«Di belle voci in Italia ce ne sono, ma forse non ci si crede come si dovrebbe. Durante una master class a Los Angeles mi è stato chiesto perché il nostro Paese produce soprani, baritoni, bassi, ma pochi tenori. E ho risposto: perché quella del tenore è la voce più difficile. La più costruita del repertorio. Anche se ascoltando la solarità di Pavarotti tutto sembrava facilissimo. È vero, a volte mancano un po’ di carisma, ma le nostre belle voci italiane sono un patrimonio da tutelare».

E invece?

«A volte le uccidiamo prima che possano mettersi in mostra e in questo caso la responsabilità non è degli insegnanti, ma dei teatri, degli agenti, che spingono troppo presto certe giovani voci verso un repertorio troppo impegnativo per loro. Perché la voce di un cantante è come una farfalla che, se appesantita troppo, non riuscirà ad alzarsi in volo né ora né mai. Bisogna avere pure fortuna con i maestri. Il mio, ad esempio, si chiama Danilo Rigosa ed è lo stesso da quando avevo sedici anni».

A novembre sarà impegnato ancora in “Les Contes d’Hoffmann” alla Royal Opera House e poi a gennaio l’attende “Roméo et Juliette” al Metropolitan di New York.

«Frattanto vorrei dare alle stampe un disco lirico già pensando, però, a un nuovo progetto crossover per tentare nuovamente la via del pop. Se ci fosse ancora Lucio (Dalla ndr), chiederei un pezzo a lui; penso a qualcosa come ‘Amore disperato’, brano della sua ‘Tosca’ rimasto, nonostante l’interpretazione di Mina, ben al di sotto dell’attenzione che avrebbe meritato. A proposito di ‘Tosca’ nella stagione 2018-19 debutterò con quella di Puccini al Covent Garden; si tratta di un grandissimo traguardo visto che nel ’90 per me tutto è nato proprio con quell’opera in cui interpretavo il pastorello accanto al mito Pavarotti. E poi interpreterò ‘Un ballo in maschera’ che era la sua opera preferita».

Pavarotti rimane una costante della sua carriera.

«Ricordo ancora il nostro ultimo incontro. Uscendo dalla sua casa a Pesaro per volare in America, Pavarotti mi disse: ‘Ciccio ricorda che sei il mio campionissimo. Un ‘signor’ tenore. Vai e prenditi il tuo successo e torna che facciamo un album insieme’. Ma purtroppo il destino ha disposto diversamente».