"Racconto una famiglia devastata che cerca di tornare alla vita"

Claudia Cangemi, dal giornalismo alla narrativa, presenta il romanzo “Non ti lascio alla notte”, storia di un femminicidio

Claudia Cangemi presenta il suo nuovo libro

Claudia Cangemi presenta il suo nuovo libro

Milano, 22 novembre 2019 - Dalla poesia alla narrativa, un fil rouge lega i libri di Claudia Cangemi: i temi sociali, in particolare riguardo alle donne, il rispetto nelle relazioni, alla base della convivenza civile. Il primo romanzo della giornalista e scrittrice, “Non ti lascio alla notte" (Giovane Holden Edizioni) - che sarà presentato in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, domani alle 18 al centro civico Agorà di via Monviso 7 ad Arese e lunedì alle 20.30 all’auditorium del Centro culturale Il Pertini in piazza Confalonieri a Cinisello Balsamo - affronta il più doloroso e difficile: il femminicidio.  

Come nasce il libro? «La sopraffazione nella coppia, fino al suo estremo, il femminicidio appunto, è un tema che purtroppo la cronaca ci ripropone quasi quotidianamente. Credo sia importante non assuefarsi, che se ne parli in continuazione. La storia narrata può essere più efficace di un articolo o un saggio, che danno tante informazioni ma non smuovono dal punto di vista emotivo».

Che storia racconta? «È la storia di una giovane coppia come tante altre, con un figlio piccolo. Il fulcro è il femminicidio ma, grazie a diversi piani temporali, racconta il prima e il dopo, a cui troppo spesso non si pensa: come sia possibile che si arrivi a tanto, il dramma dei “sopravvissuti“. Il bambino è accolto dalla zia, ma i rimpianti e i sensi di colpa mettono a repentaglio gli equilibri precari della famiglia, il rapporto con il marito e con la figlia, che si trova la vita stravolta, suo malgrado».

Il carattere dei personaggi emerge dai dialoghi, sembra quasi una sceneggiatura. «Credo sia interessante il piano delle relazioni: tra il bambino e la zia, tra lui e la cuginetta, nella coppia. Ho cercato di calarmi nei panni di ciascuno dei miei personaggi senza un atteggiamento giudicante, un po’ come fa un attore».

Come ci si può immedesimare nell’assassino? «Non è stato per niente facile, istintivamente provo una grande repulsione al pensiero di un uomo che arriva ad uccidere la sua compagna. Provare a raccontare la “sua“ storia, non significa assolutamente giustificare, ma cercare di capire: questo dovrebbe essere il nostro compito. Trovo insopportabili quelle formule superficiali “era geloso“, “un raptus di follia“, “lei voleva lasciarlo“. Non è assolutamente questo».

Che idea si è fatta, anche dalla sua esperienza di cronista? «Sono convinta che all’origine ci sia fondamentalmente un analfabetismo emotivo-affettivo. Il femminicidio non è però inevitabile: ha bisogno di essere preso in considerazione con attenzione, a partire dall’educazione familiare e scolastica. I bambini assorbono quello che c’è in casa, per osmosi. Anche la scuola può fare molto: come per il bullismo. Bisogna insegnare il rispetto dell’altro, che sia il compagno di classe o chiunque altro. Spero che questo romanzo possa essere uno spunto di riflessione».