Ermanno Olmi, il ricordo della figlia: "Tutti i set con lui erano famiglia"

La produttrice cinematografica Elisabetta Olmi racconta il legame del padre regista con la città di Milano

Elisabetta ed Ermanno Olmi

Elisabetta ed Ermanno Olmi

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«Una scuola porta il nome di papà Ermanno. Proprio la scuola che frequentava lui». Elisabetta Olmi, produttrice cinematografica, aveva scoperto le aule di viale Bodio al suo fianco. «È stata l’ultima visita di mio papà a scuola – ricorda la figlia del regista –. Era ristrutturata, ma come ferma nel tempo. Papà passeggiava in quei corridoi con gli occhi di un bambino, riscopriva emozioni, riviveva quei momenti, sembra sentisse gli odori. Si allungava col collo per ritrovare quello che vedeva da piccolo. È stato bellissimo». E ora tutto l’istituto comprensivo si chiama Ermanno Olmi. «Un’emozione grande. La sua scuola è stata sempre un po’ una parte della famiglia e spero che questo legami continui». C’è anche un progetto cinematografico intitolato al “Ragazzo della Bovisa“. «E ne sono felice, perché Ermanno amava molto i bambini. Anche la nostra società “Ipotesi cinema” è stata fatta per i ragazzi che volevano seguirlo sui set. Lui non poteva accoglierli tutti e ha pensato a questa “scuola“, a queste riunioni con loro. Ho visto i cortometraggi realizzati dagli alunni, sono deliziosi». Come andava Ermanno a scuola? «La preside ci ha mandato il registro dei suoi voti. Direi benino, anche se non amava tanto star seduto sulla sedia». Nonostante il trasferimento ad Asiago, siete sempre rimasti legati a Milano? «Siamo cresciuti saltando da un cortile all’altro di piazzale Lotto. E lui ci parlava tantissimo della Bovisa. Ci sono tornata con lui, quando ero in università: era malato e ha voluto visitare le sue strade. Non era cambiata moltissimo, mi disse». Da piccoli andavate a trovarlo sul set? «Ci accoglieva tutta la troupe, giocava con noi. Tutti i set diventavano un prosieguo della famiglia: cercava gli stessi professionisti, film dopo film. Macchinisti e costumisti diventavano per noi “zioni”. Non era un set per noi, era il lavoro di papà. La svolta è arrivata con la Palma d’Oro e una caterva di giornalisti che volevano farci foto, cosa che a noi non piaceva, ma ci siamo resi conto dell’importanza del suo lavoro. Ci ha sempre tenuto lontani dalla mondanità». Il set che le è rimasto nel cuore? «Quello de I recuperanti. Ad Asiago, col vecchio dolce burbero che andava a cercare le bombe. Un’occasione per stargli molto vicino». Come in Torneranno i prati, al lavoro fianco a fianco. «E in mezzo a nove metri di neve: andavamo in giro con le motoslitte e lui aveva 84 anni. Ricordo le riprese in notturna, a 1.800 metri. Siamo stati molto vicini sì. C’ero io, c’era mio fratello. Tornavamo da mamma». Un altro set che vi ha visto lavorare insieme e al quale è particolarmente legata? «Centochiodi, lungo il Po. I vecchietti si sono affezionati a Ermanno e a tutti noi. La sera, quando finivamo di girare, riso, salsiccia e si cantava. È stato un set sereno, un po’ faticoso per le zanzare, che con i proiettori... lascio solo immaginare. Gli ho confessato che quei “vecchietti” in realtà erano più giovani di lui e ha cominciato a chiamarli “i ragazzi del mio set“. Sul lavoro era molto, molto esigente, soprattutto con noi». Cosa manca di più? «Tutti i suoi insegnamenti di vita e poi le fiabe di Tolstoj che ci leggeva. Involontariamente e volontariamente ci ha guidato molto durante l’infanzia. A volte era un prevaricatore, ma era un grande narratore. Anche da un oggetto riusciva a trovare la parte più delicata, il senso, il perché toccarlo in una certa maniera. Ci ha insegnato il valore di una cosa rispetto a un’altra. Ha seminato molte di queste cose, che magari trovavamo noiosissime, ma che mi hanno dato la possibilità di essere indipendente e autonoma. Manca tanto».