Piccolo Teatro Grassi, 'La scortecata' di Emma Dante: "Io voglio scuotere il pubblico"

Strapparsi di dosso la pelle. Per morire. O rigenerarsi. Come un serpente. Simbolo potente. Che emerge come un fermoimmagine da una delle fiabe più celebri

Emma Dante

Emma Dante

Milano, 2 aprile 2019 - Strapparsi di dosso la pelle. Per morire. O rigenerarsi. Come un serpente. Simbolo potente. Che emerge come un fermoimmagine da una delle fiabe più celebri de «Lo cunto de li cunti» di Giambattista Basile, la raccolta in napoletano del Seicento. Fiabe per adulti. Fra Rabelais e Shakespeare. Emma Dante vi si è ispirata per il suo «La scortecata», da stasera al Piccolo Teatro Grassi su riscrittura della stessa regista palermitana. Con Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola a interpretare due vecchie che vivono in una catapecchia ai piedi del castello. Il re si innamora della loro voce. Ma come riuscire a ingannarlo facendogli credere di essere giovani e belle? Finale magico. Di carne e di sangue.

Emma, perché ispirarsi a Basile?

«Perché è stato una folgorazione, una specie di amore per questo mondo di fiabe meravigliose. Mi è poi venuto naturale concentrarmi sulle due vecchie e le loro squallide giornate passate in attesa della morte, una fiaba che aveva già scelto Matteo Garrone ne “Il racconto dei racconti”».

Quali le differenze con l’originale?

«Non ho previsto altri personaggi, le due vecchie interpretano tutti, coi loro corpi chini. Con questa lingua barocca, arzigogolata, dove alcune parole sono del tutto incomprensibili ma possiedono un fascino legato al suono, al gesto, alla carne. C’è poi una differenza nel finale: in Basile la seconda vecchia va dal barbiere a farsi scuoiare, non sapendo dell’incantesimo crede sia il modo per diventare giovane come la sorella; la mia è invece la richiesta di un’eutanasia, anche se vi si nasconde il simbolo della rinascita».

Le è mai capitato di cambiare pelle a teatro?

«Forse sì. Quando ho cominciato a fare spettacoli più cattivi. Inizialmente mettevo in scena sempre qualcosa di lirico, al limite del laccato. A un certo punto ho sentito la necessità di scuotere chi veniva a vedermi, a prescindere dal successo. C’è poi un cambiamento legato al corpo e al tempo che passa, al modo di ragionare sulle cose. In questo senso negli anni mi sono addolcita».

Quale il momento più bello?

«Con “Le Sorelle Macaluso”, che non a caso sta diventando il mio secondo film. Da tempo desideravo raccontare un’epopea femminile incentrata sulle nostre nonne, madri, sorelle. Grandi donne capaci di incredibili imprese, nell’ombra di quelle case dove persiste la presenza dei morti, destinati a ripetere per sempre gli stessi gesti. Ne abbiamo percezione in certe inquadrature. E in questo ovviamente il cinema permette un racconto di grandissima forza».

Tornerà a lavorare col Piccolo?

«Sì, a gennaio 2020, la storia di una famiglia “non naturale”, tre donne che crescono un figlio non loro, un ragazzino con problemi di psicomotricità. Tre madri in una specie di casa di tolleranza, fra il bordello e il maglificio».

Cosa si augura per i prossimi mesi?

«Vorrei continuare a fare il mio lavoro come l’ho sempre fatto, ovvero sentendone la necessità ogni singolo minuto. Essere in grado di indignare anche a 70 anni se mi sarà concesso di arrivarci. Un po’ come Camilleri, no? Che nonostante l’età, l’ampiezza della sua storia, la cecità, riesce ancora ad aprire una finestra e a raccontarci dove siamo. Ecco, mi auguro di vedere anche dopo, fino all’ultimo».