Dardust e il viaggio multisensoriale. Nell'ultimo album punta alla sperimentazione

Al Vittoriale Dario Faini con la sua astronave di visual, luci e musica e riferimenti anche a Dalì e Caspar

Dardust con uno dei “suoi” artisti, Mahmood

Dardust con uno dei “suoi” artisti, Mahmood

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Gardone Riviera (Brescia) - Un’anima onnivora. C’è DRB che produce urban pop, Dardust che punta sulla sperimentazione, e Dario Faini che declina nome e cognome in quelle canzoni dove il compositore prevale sul produttore. Nell’ultimo album "S.A.D. Storm and Drugs" Faini è Dardust e in questa veste si presenta stasera all’ Arena del Vittoriale di Gardone Riviera e il 22 al Carroponte di Sesto San Giovanni col suo nuovo show per mostrare l’altra faccia del pianista lunare applaudito al piano la scorsa estate. "Quello era uno show concettuale, per piano solo, un viaggio nello spazio pianeta dopo pianeta con brani suonati così com’erano nati prima di contaminarsi con elettronica e quant’altro per entrare nei dischi" spiega. "‘S.A.D. Storm and Drugs’ è invece la sinstesi di quanto fatto finora, un’esperienza multidimensionale del viaggio fatto come Dardust passando da Berlino, Reykjavík e Londra-Edimburgo con gli ultimi tre dischi. Un’astronave con sintetizzatori, visual e luci che parte in maniera molto teatrale, con una serie di brani collegati ad altrettanti quadri di Caspar Friedrich con un mood crepuscolare, intimista, emozionale. Ma lei si sente un po’ quel viandante «sul mare della nebbia» ritratto dal pittore tedesco nella sua tela più famosa? "Un po’ sì. Pure il mio, nella prima parte, è un palco nebbioso, con tanto fumo e la mia figura somiglia a quella del viaggiatore proteso verso un orizzonte reso quasi indistinguibile dal cielo nuvoloso. Poi arriva una specie di tempesta e dalle visioni romantiche del Settecento ci ritroviamo proiettati nel futuro di un quasi rave scandito da brani fortemente caratterizzati che scavano nell’inconscio". Se pure per questa seconda parte dovesse trovare un pittore di riferimento, chi sceglierebbe? "Il primo che mi viene in mente è Salvador Dalì, per la dilatazione della forma e delle strutture operata dall’inconscio". Perché, dopo tre dischi legati all’Europa, ha deciso di cambiare orizzonte e dedicare il prossimo al Giappone? "Si tratta di un doppio album in cui voglio estremizzare al massimo le mie due anime, classica ed elettronica. Il primo disco, infatti, sarà solo di pianoforte, mentre l’altro tutto elettronico senza pianoforte. Non potendo volare là causa pandemia, mi sono immaginato un mio Giappone. La prima parte l’ho già realizzata con il produttore Taketo Gohara, con riferimenti ai film d’animazione di Miyazaki, alle colonne sonore di Hisaishi, alle composizioni di Sakamoto ed altri colori giapponesi. Tutto questo anche se vorrei che, nell’animo, fosse il mio disco più italiano di sempre". Quando uscirà? "Spero a febbraio. Ho concepito il tour di questa estate per chiudere un capitolo nell’attesa di aprirne un altro a primavera". Quale potrebbe essere, dunque, il regista giusto per le sue colonne sonore prossime venture? "Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino. Ma anche il registra di ‘Sonatine’ Takeshi Kitano o Christopher Nolan".