Effetto Covid, aumentate le fratture alle ossa: perché e cosa fare

I cinque milioni di italiani che soffrono di osteoporosi rischiano grosso dopo l'assenza di cure nel lockdown

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Brescia, 18 maggio 2022 - Tra i tanti effetti indiretti, indesiderati e inattesi del Covid-19 c'è l'aumento delle fratture alle ossa. Questo perché le persone anziane affette da osteoporosi  - in Italia oggi sono circa 5 milioni - durante il lockdown e nelle complicate fasi dell'emergenza ospedaliere non hanno potuto effettuare esami specifici, come la densitometria o la Moc (mineralometria ossea) né hanno ricevuto una diagnosi o seguito alcuna terapia. Fra le conseguenze più gravi c’è stato appunto l’aumento del numero di fratture dovute a osteoporosi non riconosciuta e non trattata (+30%, su circa 560 mila/anno), oltrea un maggiore rischio di morte legato al peggioramento della qualità di vita del paziente considerato fragile.

Il focus group  Sono questi i risultati di un focus group, un gruppo di miglioramento formato da Vania Braga, endocrinologa dell’Università degli studi di Verona e responsabile del centro di riferimento per l’osteoporosi della ULSS 9 scaligera; Anna Lyres Kunzle, chirurgo ortopedico e traumatologa dell’Università degli Studi di Brescia; Alberto Magni medico di medicina generale e responsabile delle politiche giovanili per la SIMG, la società italiana di medicina generale; Giuseppe Petrosino, economista sanitario, fondatore dell’agenzia Paradeigma Consulting di Milano; Gianantonio Saviola, reumatologo dell’IRCSS Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Castel Goffredo, Mantova; e Silvia Scolari medico fisiatra della Casa di Cura Villa Barbarano di Salò. I risultati emersi dal focus sono stati presentati durante il 10° congresso nazionale “Gardareuma”, che si è concluso a Sirmione lo scorso 14 maggio, sotto la presidenza di Franco Franceschini, docente di reumatologia e immunologia clinica dell’Università degli studi di Brescia.

I commenti

“L’impatto del Covid-19 sulla malattia, un vero tsunami, ha purtroppo messo a fuoco e amplificato alcune criticità già presenti nel sistema sanitario – ha commentato Vania Braga – che per quanto riguarda la gestione e il trattamento del paziente con osteoporosi non è ancora sufficientemente integrato. Anche il medico di medicina generale può prescrivere il trattamento più appropriato ed efficace per il paziente fragile, seguendo le indicazioni della nota 79 redatta dall’AIFA, l’agenzia italiana del farmaco. Lo specialista interviene successivamente, e di fronte a una frattura andrebbe sempre accertata la presenza o meno di osteoporosi”. Per il trattamento farmacologico dell’osteoporosi vengono somministrati alcuni principi attivi in grado di mettere a riposo l’osso, bloccare la perdita di calcio e stimolare nuova produzione ossea: i bisfosfonati, composti sintetici in grado di fissarsi sulla superficie dell’osso e ridurne il riassorbimento; gli anticorpi monoclonali ovvero contro-proteine ad attività anabolica in grado di stimolare la produzione dell’osso; le terapie ormonali sostitutive; oltre all’integrazione con calcio e vitamina D prevista dai protocolli terapeutici. Il blackout dovuto al Covid-19, con lo stop delle visite e dei controlli specialistici, ha tuttavia provocato anche l’accelerazione di processi positivi per migliorare il servizio sanitario offerto al paziente anziano. Per esempio, la possibilità di condividere i dati già disponibili sul paziente e utilizzare le nuove tecnologie.

Il medico di base

Per Alberto Magni “è il medico di medicina generale il primo contatto del paziente fragile, che spesso - anche in momenti non segnati dalla pandemia - non è in grado di muoversi e uscire di casa autonomamente per recarsi in ambulatorio. In termini di prevenzione, il medico di base è già in possesso di molte informazioni utili per agire preventivamente sul rischio frattura del paziente. Conosce la sua storia clinica, il contesto sociale e familiare, e può accedere alla banca dati della Regione di riferimento, per esempio per quanto riguarda eventuali ricoveri ospedalieri e altre malattie croniche - può quindi incrociare le informazioni per identificare tempestivamente il paziente fragile, facendo una prima valutazione multidimensionale del suo rischio, e avviare una rete di intervento multidisciplinare e follow-up”.

Prevenzione

Per prevenire il rischio di cadute e fratture, e conseguente perdita di autonomia, il medico di medicina generale può verificare se il paziente ci vede e ci sente adeguatamente, e inoltre valutare il suo stile di vita per raccomandare un esercizio fisico moderato ma continuo; un’alimentazione sana e variata; l’assunzione limitata di bevande alcoliche; l’interruzione dell’abitudine al fumo. Il medico deve tuttavia poter contare su un interlocutore collaborativo: la persona fragile va formata, informata e motivata, e anche chi se ne prende cura, il cosiddetto caregiver - assistente, familiare, o badante. “È necessario formare coloro che assistono i nostri pazienti. La telemedicina, il teleconsulto con l’utilizzo di semplici app, può facilitare il lavoro del professionista sanitario nel seguire il paziente anche a distanza", ha sottolineato Magni.

I rimedi

Cosa fare allora, sulla scorta delle indicazioni emerse dal lavoro del focus group? “Occorre soprattutto fare squadra, networking fra noi professionisti della salute – ha aggiunto Braga – Formazione è la parola chiave, insieme a dialogo perché i medici di base, gli infermieri e gli specialisti devono cominciare a parlarsi. Formazione del paziente e del caregiver per una maggiore aderenza alla terapia e rispetto della prescrizione. Ma anche del medico, del personale sanitario per accrescere la conoscenza dell’osteoporosi e dei protocolli terapeutici già esistenti. Anche poter disporre di dati raccolti in modo sistematico è importante. Oggi sono parziali e non sempre aggiornati”.

L'importanza delle cure

Gli esperti hanno ricordato che la percentuale di aderenza al trattamento, o compliance, del paziente osteoporotico è generalmente bassa: circa il 50% dei pazienti non segue regolarmente la cura prescritta, e la interrompe entro un anno. Solo il 40% arriva al secondo anno, e questo incide negativamente non solo sull’efficacia della terapia farmacologia, ma anche sulla spesa sanitaria a carico del sistema sanitario nazionale.