Il protocollo Cazzaniga? Fatto morale

L'ex viceprimario del pronto soccorso di Saronno difende metodo e presupposti del suo agire sui malati

Leonardo Cazzaniga davanti alla Corte d'Assise di Busto Arsizio (NewPress)

Leonardo Cazzaniga davanti alla Corte d'Assise di Busto Arsizio (NewPress)

Busto Arsizio (Varese), 12 marzo 2019 - Non ho mai desiderato la morte di nessuno. La somministrazione di farmaci come Midazolam, Propofol o morfina era finalizzata solo ed esclusivamente ad alleviare le sofferenze di pazienti giunti ormai alla fase terminale. Ero sensibile alle loro sofferenze. Ho traghettato verso la morte persone che sarebbero comunque morte. Altrimenti sarebbe crudeltà o accanimento terapeutico. Secondo me, avevo il dovere deontologico di non farle soffrire». È il suo giorno e Leonardo Cazzaniga tiene la scena per sei ore. Dimagrito, quasi emaciato, giubbotto blu e maglietta a righe azzurre, a fargli compagnia un fascio di carte e una bottiglia di acqua minerale. Gli viene contestato l’impiego di farmaci che superavano dalle tre alle otto volte la posologia massima. Ammette il sovradosaggio ma precisa: «Bisogna essere in un pronto soccorso. Io sono il medico, vedo la sua sofferenza, la mia è un’esperienza diretta. Il medico si confronta con il paziente. Le linee guida non devono avere un effetto cogente sul medico».

Parlando della sedazione palliativa di un malato pre-terminale o terminale paragona la sua azione a quanto avviene in un hospice: «Anche negli hospice c’è un’accelerazione della morte naturale del ricoverato. Solo che in un pronto soccorso il tempo è misurato in ore e minuti, mentre in un hospice si parla di giorni e di mesi. Ma il malato del pronto soccorso ha lo stesso diritto di non soffrire del malato di un hospice».

Si parla della morte del paziente Angelo Lauria, il 12 aprile del 2012. È l’innesco della vicenda. Le segnalazioni alla direzione fatte dagli infermieri Radu Iliescu e Clelia Leto. La commissione interna d’inchiesta che comunque “assolve” l’aiuto primario.

E finalmente di parla del “protocollo Cazzaniga”. «Nella sua segnalazione - gli si rivolge il pubblico ministero Maria Cristina Ria - l’infermiera Leto parla di sue minacce telefoniche al personale del 118 di applicare il “protocollo” a pazienti in codice rosso o che a suo parere non meritavano le cure primarie». «Non ho mai minacciato telefonicamente», è la risposta dell’imputato, che aggiunge: «Mi riferivo a pazienti vicini alla morte che meritavano un trattamento umano, cercando di abolire la sofferenza». I farmaci erano parte del protocollo? «Inevitabile. Io partivo da un presupposto in termini morali. È ovvio che poi questo si estrinsecasse in atti medici, con l’applicazione dei farmaci».

Domande e repliche fanno uscire il personaggio Cazzaniga. «Ha mai pronunciato frasi come “Io sono l’angelo della morte”, “Io sono Dio?”», chiede il pm. «Sì. Non ricordo le circostanze. Leggevo il “Paradiso perduto” di Milton, libro di straordinario valore. È chiaro, non mi consideravo Dio. Se lo fossi, non sarei qui». Dal primo febbraio al 31 marzo del 2014 Cazzaniga trascorre un periodo in malattia. «Sono stato consigliato sia dal dottor Frattini sia dal dottor Scoppetta (rispettivamente primario di anestesia e del pronto soccorso, entrambi componenti della commissione - ndr). Questo per i miei comportamenti sopra le righe al pronto soccorso». Ricorda anche di essere staro in terapia da uno psichiatra.

In precedenza si è tolto dalle scarpe sassolini che erano in realtà macigni. Ha parlato dell’“attendismo” di colleghi, esponenti della “medicina difensiva”. Con una specie di orgoglio, di sfida intellettuale, ha aggiunto: «Erano più preoccupati di evitare complicazioni che della salute del paziente. Questa era la differenza fra loro e me». Con gli altri medici il rapporto è stato ottimo nei primi anni, poi il gruppo storico si è sfaldato, nel 2005. Sono iniziati i guai.