Nicoletta Figini, nessun colpevole dopo 9 anni e quella la pista che porta a Leopoli

Nell’estate del 2013 a Porta Venezia fu trovato il corpo della donna morta tra atroci sofferenze. Un delitto ancora irrisolto

Il luogo del delitto e Nicoletta Figini

Il luogo del delitto e Nicoletta Figini

Il giorno 19 luglio del 2013 verso le ore 9, nell’appartamento in Milano, via Bernardo Ramazzini 4, è stato rinvenuto, dalla domestica, il cadavere di una donna che risponde al nome di Nicoletta Figini". Comincia così, nei verbali contenuti nei faldoni della Procura, la storia di un omicidio complesso sul quale gli investigatori non hanno mai smesso di indagare.

L'ultima pista che porta a Leopoli

Con un’ultima pista, molto promettente, che portava dritta a Leopoli, città ucraina oggi devastata dalla guerra. Un’altra , invece, a un romeno, residente a Cernusco sul Naviglio, a cui però non è mai stato possibile prelevare coattivamente il Dna a causa di un incredibile pasticcio giudiziario.

L'omicidio

Una morte, quella della ricca vedova, avvenuta "dopo lunghe sofferenze per asfissia tra mezzanotte e le quattro di mattina" di quel 19 luglio, dirà l’autopsia. E ancora, si legge: "È stata selvaggiamente picchiata e si è strenuamente difesa".

La morte atroce

Nicoletta Figini, che aveva collo, mani e piedi legati, riesce a liberarsi parzialmente una narice solo quando i suoi assassini (si ipotizzò la presenza di due uomini) se ne erano già andati. Non le basterà per sopravvivere, una specie di illusione, che prolungherà solo un decesso inevitabile. Ottanta profili di Dna sospetti, tracce lasciate sulle borchie incastonate nella cintura usata dalla vittima per pratiche sadomaso che le legava il collo agli arti superiori e inferiori, in un incaprettamento punitivo, e altri sulle lenzuola attorcigliate sulla bocca che le impedivano di respirare.

Indagini complicate

Le indagini sono apparse da subito complicate. La donna dopo la morte del marito viveva sola, non aveva parenti, né legami affettivi stabili, frequentava un centro per disintossicarsi dall’alcol e dalla droga di cui aveva ricominciato ad abusare dopo la fine della relazione con il socio negli sfortunati affari di un piccolo negozio di telefonia. Lei, a spese sue, gli aveva avviato l’attività commerciale; lui, invece, aveva iniziato a tradirla con una ragazza molto più giovane. Minorenne, 14 anni, e per questo l’uomo, cinquantenne, finirà in carcere pochi mesi dopo la sua morte violenta, con l’accusa di pedofilia. Gli investigatori, mettendo insieme il puzzle di una vita sfilacciata, si convinsero che la pista buona era quella che portava a Leopoli: una rapina finita in tragedia messa a segno da persone dell’Est che conoscevano molto bene l’appartamento, sapevano come muoversi, cosa rubare e conoscevano bene le abitudini della padrona di casa.

Chi era Nicoletta

Nicoletta era una donna ricca, appartamento di lusso a Porta Venezia, gioielli e quadri di valore, governante che puliva e cucinava per lei, parrucchiere ed estetista a domicilio due volte a settimana, come racconterà la sua colf ucraina. Secondo la ricostruzione degli investigatori la notte del 19 luglio, a mezzanotte, i suoi assassini la sorprendono a letto. La picchiano una prima volta in camera, lei cerca di difendersi e perde un’unghia, ritrovata sul letto. La pestano anche mentre la trascinano in soggiorno (dove morirà), forse perché continua a resistere o forse perché non vuole decidersi a dire dove tiene i soldi.

I sospetti

Sul corpo di Nicoletta rimangono le tracce biologiche di tre uomini. Una corrisponde a una persona che aveva rapporti sessuali occasionali con lei, ma che viene esclusa da subito perché ha un alibi di ferro. Gli altri due profili sono riconducibili a individui caucasici classificati come nativi dell’Est Europa. Anche l’analisi del traffico telefonico delle celle nella zona del crimine, in orario prossimo e compatibile con quello dell’omicidio, individua utenze intestate a soggetti provenienti dall’Est Europa con precedenti di polizia e penali. Gli investigatori sospettano un legame tra l’omicidio e un ruolo della colf ucraina, unica presenza fissa in casa, che poteva aver fatto da tramite. Pochi giorni prima della morte della vedova, la domestica era tornata a Lviv, Leopoli, quasi a volersi costruire un alibi. Poi si era sempre rifiutata di tornare a Milano, nonostante le convocazioni e le rogatorie della Procura. Così gli investigatori della Mobile andarono a Leopoli per interrogarla.

La guerra in Ucraina

Date sfortunatissime, quelle della trasferta: tra il 13 e il 23 febbraio 2014, la polizia italiana arrivò nel pieno dei disordini in Ucraina, l’"Euromaidan". Una bomba colpì e distrusse il commissariato in cui avrebbe dovuto essere sentita la colf e così, nel caos generale della rivoluzione, non fu possibile acquisire elementi utili ai fini investigativi. Con lo scoppiare delle rivolte nei giorni successivi non se ne fece più nulla.

Il romeno di Cernusco

Restava la pista del romeno, un operaio 27enne, con piccoli precedenti, residente a Cernusco. Il giovane si rifiutò di sottoporsi al prelievo del Dna. Fu chiesta al tribunale di Milano l’autorizzazione al prelievo coattivo, gli investigatori ritenevano la procedura applicabile anche a soggetti che non erano nella lista degli indagati. Non la pensava così il giudice che negò ogni autorizzazione proprio perché il giovane romeno non compariva tra gli iscritti nel registro. E in assenza di elementi nuovi a suo carico, relativi all’omicidio, non fu possibile iscriverlo. Niente indagato, niente Dna. A nove anni di distanza, la tragica fine della ricca vedova Figini resta ancora senza un colpevole.