Boss al confino, autogol di Stato: così le cosche si infiltrarono al Nord

La storia: dai sequestri al controllo delle aziende

Luciano Liggio

Luciano Liggio

Milano, 5 luglio 2019 - Un fenomeno sociale, da una parte. Dall’altra, un provvedimento che avrà conseguenze nefaste, devastanti. Il primo è costituito dall’eccezionale flusso migratorio verso il Nord dopo la seconda metà dagli anni ‘50, gli anni del boom. Nella marea di gente onesta che sogna un lavoro e un futuro migliore si acquattano i malavitosi. Con i rapporti di famiglia, parentela, comparatico, provenienza, si riallacciano quelli di colleganza mafiosa. Il provvedimento è quello del confino. Di origine fascista, viene ripristinato, in prima battuta, nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza: in un secondo tempo, nel 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa e molti sono destinati all’hinterland milanese e alla Lombardia. Fra il 1961 e il 1972 salgono in Lombardia 372 confinati. Fra il 1965 e il ‘72 nella sola provincia di Como s’insediano 44 «mammasantissima» in soggiorno obbligato. Numeri ancora relativamente modesti se confrontati con quelli che iniziano ad allinearsi dal 1970 in poi.

Dopo le rivolte nelle carceri di Linosa e Lampedusa, viene deciso di spostare il domicilio coatto di boss, semplici affiliati e usuali banditi dalle isole al Settentrione. Un’autentica diaspora. Le famiglie si riuniscono. I clan si ricompattano. Vengono avviate attività sotto altro nome. Si fanno affari, circolano quattrini. Il germe mafioso non tarda ad attecchire. La colonizzazione mafiosa della Lombardia (e non solo) è iniziata e non tarda a progredire.

Il primo sequestro di persona in Lombardia avviene a Vigevano, la sera del 19 dicembre 1972. A rapire Pietro Torielli, 34 anni, industriale delle calzature con ditta a Trezzano sul Naviglio, sono i corleonesi di Luciano Liggio. Cosa nostra non tarda ad abbandonare questa attività criminale. Se ne impossessano i calabresi che perfezionano la tecnica del sequestro di persona fino a farne un’industria con centinaia di rapimenti. Sempre più mafia egemone in Lombardia, la ‘ndrangheta prosegue nella sua mutazione genetica e nell’affinamento imprenditoriale, con il traffico internazionale di stupefacenti, l’usura, le estorsioni, il riciclaggio. Traspare un senso di amarezza in quello che scrive nel 2003 la Commissione parlamentare antimafia: «Storicamente la mafia calabrese è stata sottovalutata e sottostimata e per lungo tempo non è stata adeguatamente studiata ed analizzata». Quella che si potrebbe dire una «disattenzione» istituzionale. Una espansione che prosegue negli anni Novanta, anche se finalmente le istituzioni reagiscono e sferrano decisi colpi di maglio con le operazioni Wall Street, le due tranches di Isola felice, Nord-Sud e I Fiori della notte di San Vito.

La data è quella del 14 luglio 2008. San Vittore Olona, Altomilanese. Due uomini arrivano su una Kawasaki. Entrano nel bar Reduci e combattenti, vanno dritti al banco, ordinano caffè e cappuccino. Poi si dirigono al cortile interno, dove è seduto un gruppetto di persone. Sanno su chi fare fuoco. Il bersaglio è uno solo. Colpito al volto e al petto, Carmelo Novella non riesce a festeggiare il compleanno numero 48. Calabrese di Guardavalle, una volta scarcerato nel mese di agosto del 2007, è diventato il responsabile della «Lombardia», la «camera di controllo» regionale dei «locali» sparsi sul territorio. Novella ha pagato con la vita un sogno secessionista. Una riflessione è obbligata e inevitabile: la mafia calabrese è potente e potenzialmente autonoma al punto che la sua guida ha pensato di emanciparla dalla casa madre Calabria.