Aquarius, la nave dei migranti. Il medico Garbaglio: "Vi racconto i miei tre mesi"

Il racconto di chi assiste i profughi in mare

Salvataggio dell'Aquarius

epa06824332 A member of the NGO SOS Mediterranee waves to the 'Aquarius' rescue vessel as it sets sail from Valencia's port in Spain 20 June 2018. The 'Aquarius' is due to leave later in the day. The 630 migrants who arrived on board the 'Aquarius' have been given a 45-day-long visa, time in which they will have to regularize their situation. EPA/Kai Foersterling

Como, 22 giugno 2018 - Altro che crociera. È un viaggio da incubo quello sulla nave Aquarius nel racconto che il giovane medico comasco Marco Gabaglio, specializzando in Anestesia all’ospedale di Circolo di Varese, ha fatto all’incontro organizzato dall’associazione ComoAccoglie, in prima fila nell’aiuto in città ai senzatetto tra i quali anche molti giovani che hanno attraversato lo Stretto di Sicilia. «Sono stato sulla Aquarius da dicembre a marzo e abbiamo vissuto varie situazioni anche abbastanza pesanti, con le motovedette libiche che erano molte aggressive – ha spiegato il medico comasco imbarcato per tre mesi durante la sua collaborazione con Medici senza frontiere -. Nell’ultimo periodo non si vedono più di tanto, forse perché stanno saggiando le intenzioni del nuovo Governo. Ero l’unico medico sull’Aquarius insieme a due infermiere e un’ostetrica. Questa è la situazione medica normale sulla nave dove ci si trova ad affrontare situazioni con seicento persone a bordo, in passato anche ottocento e mille».

Un ospedale galleggiante dove è difficile se non impossibile far fronte a tutte le emergenze. «Ci si trova di fronte alle patologie più disparate, dalla disidratazione alla ipotermia a cose più gravi come ustioni anche sul 20% del corpo causate dalla miscela del carburante con l’acqua salata in cui stanno seduti per molte ore, la pelle si scioglie completamente. Poi molte persone che arrivano dai centri di detenzione in Libia sono affette da tubercolosi, a causa delle condizioni in cui sono costretti a vivere per mesi a stretto contatto l’uno con l’altro. Di solito li si riconosce subito perché tossiscono, spesso sono somali che già sono minuti di corporatura e deperiscono fino a pesare anche meno di quaranta chili». Poi ci sono le insidie della traversata in agguato.

«Il 27 gennaio scorso abbiamo soccorso un gommone parzialmente sgonfiato con parecchie persone finite in acqua. Oltre alla difficoltà del soccorso c’è quella per la maxi emergenza che ci ha costretti a rivedere le nostre strategie operative. Avevamo nove pazienti in arresto cardiaco, sei di questi erano bambini che per fortuna siamo riusciti a far trasportare in elicottero e si sono salvati tutti, abbiamo tentato di rianimare tre adulti: due ragazze sono morte subito e una durante il trasporto. Oltre a questa che è l’emergenza ci sono le polmoniti, le infezioni della pelle con persone che magari non si presentano neppure subito: abbiamo scoperto dopo un giorno e mezzo di navigazione di avere dei diabetici a bordo senza insulina. All’epoca potevamo ancora attraccare in Sicilia e in 48-72 ore si riusciva ad arrivare in un posto sicuro. Adesso non possono più fare neppure questo e non oso immagine le condizioni di 600 persone con più di tre giorni di lavoro. C’è la gente che vomita, chi non mangia e non beve, disidratata, dovete moltiplicare questo quadro per centinaia di persone».