Fenomeno baby banditi: "Figli di ricchi o delle periferie, tutti analfabeti emotivi"

Intervista a don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria: "Crescono senza ascolto, si costruiscono una società tra pari Cercano soldi e potere. E non si sentono in colpa per i reati"

Baby gang

Baby gang

Sono finiti in cella in quattro, tutti minorenni. Insieme, lungo la linea ferroviaria fra Milano e Seveso, nelle stazioni e qualche volta nei comuni limitrofi, rapinavano coetanei, stretti in branco, minacciando, picchiando e nel caso tirando fuori il coltello. L’ordinanza di custodia cautelare ha colpito un ragazzo di Vimercate, due di Cinisello Balsamo e uno senza fissa dimora. Un blitz frutto delle indagini dei carabinieri di Seregno. Due di loro, in realtà, erano già dietro le sbarre (uno a Milano e uno a Bologna) per reati analoghi, uno è stato raggiunto a casa dai militari. Il quarto, invece, è stato preso in consegna appena è sbarcato venerdì in aeroporto con la famiglia dopo le vacanze in Marocco. Tutto è nato dalla denuncia dei genitori di una delle vittime, rapinata a febbraio. A colpire era una decina di ragazzi, che agiva con una tecnica collaudata. Nel mirino sempre un minorenne, avvicinato con una scusa, che poi finiva accerchiato e costretto a consegnare la catenina d’oro, lo smartphone o qualche abito o accessorio griffato. Se le minacce non bastavano, si passava alle maniere forti: sberle e pugni. Di preferenza, la vittima era uno degli studenti che usano il treno per andare a scuola. A Desio avevano aggredito una capotreno intervenuta nel tentativo di sventare una rapina. A Seveso, alla fine di febbraio, uno ha estratto un coltello per rapinare un tredicenne. Incensurato, era stato fermato poco dopo e rilasciato. Ora è stato raggiunto di nuovo grazie alle immagini delle telecamere dopo sei mesi di altre rapine. (di GUALFRIDO GALIMBERTI)

Milano -​ «Don, la vuole sapere una cosa? Ho avuto due genitori ma non ho mai avuto un padre e una madre". Quando ragazzi che non sono ancora maggiorenni, adolescenti, entrano in carcere o arrivano in comunità spesso sono spaesati. Qualcuno ostenta ancora quel piglio sfrontato con cui si faceva forte e affrontava la vita in mezzo al branco. Ma "in fondo, quello che connota alla base certi comportamenti, la violenza, il bullismo, i reati, l’uso di droghe e alcol, è che questi sono ragazzi molto soli". Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayrós, ogni giorno li accoglie, li ascolta, impara a conoscerli e li aiuta a risollevarsi. Ad aprire gli occhi verso la vita che hanno ancora davanti.

Don Claudio, chi sono questi ragazzi?

"Sono giovani che non puoi etichettare, non puoi classificarli. Quello delle baby gang e dei minorenni che commettono reati è un fenomeno trasversale. C’è chi viene da contesti di disagio famigliare e di quartiere, ma anche chi è cresciuto in famiglie normali, le classiche buone famiglie. Ragazzi a volte apparentemente normali e perfettamente inseriti, che però covano un disagio che spesso le famiglie, le istituzioni e la scuola non riescono a leggere. Crescono senza un reale ascolto, con interlocutori poco credibili e così si costituiscono in una società tra pari, autoreferenziale. Si lasciano affascinare da narrazioni potenti e vanno a emulare comportamenti trasgressivi e violenti".

I reati, quindi, sono l’espressione di una rabbia generazionale?

"Questi ragazzi vogliono farsi vedere grandi, vogliono avere soldi, potere. Vogliono apparire. Sono figli di uno stile consumistico che li porta a condotte impulsive. E droga e alcol facilitano questi comportamenti. E quando entrano in carcere arrivano senza una coscienza di quello che hanno fatto. Spesso ammettono il reato, ma non ne avvertono la gravità. Colpa loro? No, perché a quell’età non sanno ancora chi sono, non sanno dare ancora un preciso significato ai loro sentimenti. E molti non sono stati educati all’empatia, emotivamente sono analfabeti, non sentono il dolore dell’altro. Non mi riferisco solo ai ragazzi di periferia o di seconda generazione, ma anche ai ragazzi di buona famiglia: droga e violenza sono un anestetico, un antidoto a una situazione famigliare insostenibile".

Cosa si può fare per aiutarli?

"Non basta solo replicare parole o reprimere i ragazzi in una misura di sicurezza. Il carcere è un’esperienza traumatica, un luogo dove si convive con il bullismo e la prevaricazione. Ma nel vivere insieme in carcere cerchiamo di dare ai ragazzi la possibilità di guardare in piccolo ciò che succede in comunità. È un laboratorio dove guardare insieme le esibizioni di forza e potere che comandano fuori, leggerle e capirle".

C’è chi riesce a risollevarsi e chi cade di nuovo.

"Anche in carcere molti ragazzini sono lasciati soli dalle rispettive famiglie, per i motivi più svariati. Qualcuno ce la fa a rimettersi in carreggiata, altri no. Tornano in carcere. Ma non dimentichiamoci che arrivano da esperienze spesso inimmaginabili, non possono cambiare vita in un colpo solo. Dobbiamo essere noi adulti a dar loro una seconda possibilità".