Io e il mio secolo di epidemie, Mino Milani: un’epoca è finita

Pavia, l’autore novantaduenne racconta le grandi malattie del Novecento: "Spagnola, tifo e asiatica? Tracce profonde. Ma con il Covid è tutto diverso"

Mino Milani

Mino Milani

Pavia, 29 maggio 2020 - Uno scrittore e le epidemie. Nato a Pavia il 3 febbraio 1928, Mino Milani sta attraversando due secoli e si avvia a compiere il suo. Romanziere, giornalista, storico (biografo di Garibaldi), tenacemente legato alla sua città, vive l’emergenza della pandemia nella casa dove è nato, in piazza San Pietro in Ciel d’Oro, dove le pareti sono foderate di libri e quasi ogni angolo custodisce un ricordo.

Milani, da dove iniziamo? "Dalla ‘spagnola’ del 1919. Terribile. Mia madre viveva a Siziano, fra Pavia e Milano, in una grande casa lombarda a due piani che accoglieva una grande famiglia. Erano dieci o dodici persone fra genitori, fratelli, nonni, zii. Si ammalarono tutti ad eccezione di mia madre. Stranamente lei fu risparmiata. Aveva solo sedici anni, venne a trovarsi in prima linea e si fece carico della situazione, con l’aiuto dell’anziana maestra del paese. Il medico condotto era il dottor Pietra, un uomo gigantesco che ricordo anch’io, e anche lui si meravigliava che quella ragazzina fosse rimasta immune e ne fosse uscita indenne. In casa sopravvissero tutti. Mia madre non ne parlava molto, diceva che erano cose vecchie. Ricordava le febbri, gli svenimenti, le dissenterie fulminante. Con i suoi ricordi ho scritto un libretto, ‘Notte e neve’, uscito da Einaudi qualche mese fa".

Il primo incontro diretto con una epidemia? "Ero alle scuole medie. A Pavia ogni tanto si affacciava il tifo. C’erano grandi ortaglie e tanta acqua. Anche l’acqua che si beveva era quella che era. Arrivava in classe un bidello con un grande vaso pieno di pillole multicolori. Gli sfilavamo davanti e ce ne ficcava in bocca una. Profilassi fatta".

L’“asiatica” nel 1957. "Fu una cosa seria. Si aveva paura, anche perché erano trascorsi tanti anni senza epidemie. Ricordo quello che mi disse una volta il mio amico professor Faustino Savoldi, direttore del ‘Mondino’, la clinica neuropatologica di Pavia: ‘Se non avessimo avuto gli antibiotici, sarebbe stata una strage come con la spagnola’. Eravamo completamente impreparati, ma per fortuna c’erano gli antibiotici".

Come reagì Pavia? "Da parte della città ci fu molta fermezza. Reagì benissimo, come dopo la guerra. Pavia è una città che dà il meglio di sé nei momenti di crisi. Peccato che la prima cosa che una città dimentica è la sua storia. Questo non vale solo per Pavia".

E questa pandemia? "La cosa è severa. Ha trovato tutti impreparati. In un certo senso è la fine di un epoca. Come se ci fosse arrivato un richiamo: ‘Cari miei, non pensate di tornare al tempo di prima’".

E Mino Milani come la vive? "In casa. Con un giardino e un grande terrazzo, non ho il problema del sole e dell’aria. Lavoro al nuovo libro, un’altra storia del commissario Melchiorre Ferrari, poliziotto nella Pavia del Lombardo-Veneto. Il libro che sto scrivendo e quello che sto leggendo. Non potrei avere compagnia migliore".