I Ris riaprono il caso di Mara Cagol, la brigatista uccisa durante il sequestro Gancia

Interrogati alcuni ex BR sul blitz in cui, 47 anni fa, morì la moglie di Renato Curcio insieme all'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso

Margherita "Mara" Cagol, classe 1945, con il marito Renato Curcio

Margherita "Mara" Cagol, classe 1945, con il marito Renato Curcio

Roma - Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita “Mara“ Cagol e l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell’Alessandrino in occasione della liberazione dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. 

Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant’anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse. Moglie di Renato Curcio, fu tra i principali dirigenti del gruppo armato di estrema sinistra, impegnandosi con determinazione per sviluppare la lotta armata in Italia. Partecipò al sequestro del magistrato Mario Sossi e guidò con successo l’assalto al carcere di Casale Monferrato per liberare Curcio che vi era detenuto.

Il 5 giugno 1975 rimase uccisa nel corso di uno scontro a fuoco coi carabinieri, con armi automatiche e bombe a mano, avvenuto nella cascina Spiotta d’Arzello, dov’era stato nascosto l’industriale Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente da un nucleo brigatista. La morte di Margherita Cagol segnò fortemente le Brigate Rosse e, per le sue circostanze ritenute non del tutto chiare, favorì un’accentuazione della radicalità e della violenza dell’azione del gruppo armato.

L’attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all’epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l’esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d’Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell’appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. 

 

«È una questione di giustizia e di verità storica. Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni», ha detto d’Alfonso dopo aver presentato l’esposto. Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.