Mauro, sette ore per salvarsi la vita: intervento record al Papa Giovanni XXIII di Bergamo

Il 41enne sta male nella sua casa a Tirano: l’aorta si è rotta e non sente più le gambe. "Mai tentato da nessuno, un successo"

In prima fila  da sinistra, Maurizio Merlo Giancarla Poli, il paziente Mauro Forcari e Samuele Bichi In seconda fila, da sinistra Francesco Innocente Lorenzo Grazioli Diego Cugola e Davide Ghitti

In prima fila da sinistra, Maurizio Merlo Giancarla Poli, il paziente Mauro Forcari e Samuele Bichi In seconda fila, da sinistra Francesco Innocente Lorenzo Grazioli Diego Cugola e Davide Ghitti

Milano, 16 marzo 2019 -  «Samuele, ho un ragazzo di quarant’anni in dissecazione aortica con esordio in paraplegia, lo devi prendere perché è l’unico modo in cui si può salvare». È il 2 ottobre dell’anno scorso e Antonio Cricco, chirurgo vascolare all’ospedale Morelli di Sondalo, telefona alla Cardiochirurgia del Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Anzi a Samuele Bichi, perché è «un amico fraterno, abbiamo lavorato insieme per 11 anni». Il cardiochirurgo Bichi, 11 anni di esperienza «con un grandissimo, Giampiero Esposito, uno dei massimi esperti mondiali di questa patologia», è arrivato tre anni fa a Bergamo portando una metodica per la ricostruzione dell’aorta toracica discendente che si pratica in pochi centri in Italia, «e a nostra conoscenza – spiega il responsabile della Chirurgia cardiopatie acquisite Maurizio Merlo – non era mai stata applicata in un intervento in emergenza». Sino a quel giorno.

L’elisoccorso atterra al Papa Giovanni con a bordo, sedato e intubato, Mauro Forcari, 41 anni, che si è sentito male al risveglio in casa, a Tirano: non riusciva a muovere le gambe. I medici dell’Asst Valtellina e Alto Lario gli hanno diagnosticato («brillantemente», sottolineano i colleghi di Bergamo) una dissecazione aortica: è una malattia vascolare che può manifestarsi come una dilatazione in forma cronica ma anche in maniera acuta, con una rottura dell’aorta, «il tubo ad alta pressione che porta il sangue ossigenato dal cuore al resto del corpo – chiarisce Bichi –, e se non viene riparato porta alla morte in breve tempo». La mortalità è del 90% se non viene curata, dal 15 al 20% in sala operatoria ma il caso di Mauro, «un paziente giovane per questa patologia», è particolarmente grave: «La situazione era complicata dall’emergenza della paraplegia: il sangue non arrivava non solo alle gambe, ma anche agli organi vitali nella parte bassa dell’addome».

Rischiava di morire, e l’intervento standard in emergenza che prevede «la sola sostituzione del tratto iniziale dell’aorta, non era sufficiente a salvarlo». L’unica strada, mai battuta in urgenza, è una correzione radicale dell’aorta. Il cardiochirurgo ne parla col suo responsabile Merlo, con l’équipe e gli anestesisti della terapia intensiva cardiochirurgica diretta da Luca Lorini. Bisogna decidere subito, decidono di sì. Alle 13.40 Bichi entra in sala operatoria affiancato dai colleghi Francesco Fino e Francesco Innocente, con l’anestesista Giancarla Poli, la strumentista Silvia Barachetti, l’infermiera Valeria Lombardi, l’oss Silvia Sibella, i perfusionisti Andrea Ariano e Silvia Viscardi. Ciascuno sa perfettamente cosa fare. In sette ore al paziente viene sostituita la valvola aorica, con reimpianto delle coronarie, ricostuirendo l’aorta ascendente, la radice aortica e l’aorta discendente con la protesi ibrida impiantata per la prima volta in urgenza. Alle 21.40 va in terapia intensiva, dove resterà più di due settimane, per poi passare al reparto di Cardiochirurgia, e poi alla riabilitazione, a Sondalo.

L’altro fatto eccezionale è che Mauro è tornato a camminare: l’ischemia (afflusso insufficiente di sangue) al midollo spinale non l’ha paralizzato. Di questo, sottolinea Bichi, «abbiamo potuto esser solo certi quando ha ricominciato a muovere le gambe». E non era scontato, aggiunge il dottor Merlo: «Noi abbiamo fatto le cose bene, ma vorrei fosse chiaro che siamo stati anche molto fortunati. E siamo contenti: vedere una persona tornare non solo alla vita, ma a una vita buona, in un caso del genere non è frequente».