Sulle tracce dei foreign fighters: la Lombardia si scopre sotto assedio

È la regione più interessata dal fenomeno e il livello di guardia è alto nonostante l’apparente calma. Manca un piano nazionale di prevenzione e controllo per evitare nuove forme di radicalizzazione

Un foreign-fighter

Un foreign-fighter

Milano, 22 gennaio 2020 - Il pericolo è legato a chi ha raggiunto il Medio Oriente attirato dalle sirene della jihad e potrebbe cercare di rientrare in Italia, ma più ancora agli aspiranti foreign fighter che invece non sono riusciti a partire, “bombe a orologeria” pronte a far danni dopo la caduta del sedicente Stato Islamico. Poi ci sono gli estremisti lombardi arrestati negli anni degli attentati in serie che, dalla redazione parigina di Charlie Hebdo alla Manchester Arena, hanno insanguinato mezza Europa. Sono stati condannati ma presto torneranno in libertà per aver scontato la loro pena. In carcere, invece di un percorso di recupero, hanno trovato la compagnia di altri fondamentalisti. «La Lombardia è la regione italiana più interessata dal fenomeno – spiega Francesco Marone, ricercatore Ispi e professore di Politica internazionale all’Università di Pavia –. Il terrorismo agisce a ondate, ci sono periodi segnati da attentati e altri, come questo, più calmi. Invece di fingere che i problemi siano risolti dovremmo approfittarne per prevenire". Il rischio, infatti, è ancora alto ed è legato alla radicalizzazione delle seconde generazioni e ai cosiddetti “cani sciolti”, in un contesto che vede mescolarsi esaltazione religiosa, adesione agli ideali della jihad e disagio psichico.

Fonti dell’antiterrorismo assicurano che, nonostante il periodo di relativa quiete, "la guardia non si è abbassata". Dall’inizio dei conflitti in Siria, Iraq e Libia si sono contati 26 foreign fighter che hanno vissuto in Lombardia (11, il 42.3%, tra Milano e hinterland), su circa 125 con legami con l’Italia. Tra loro, per citare alcuni casi, la madre morta in un bombardamento in Siria del piccolo Alvin, poi riportato nel Lecchese, affidato al papà che è riuscito a riabbracciarlo dopo una lunga battaglia. Oussama Khachia, partito da Brunello, in provincia di Varese, ucciso mentre combatteva nelle milizie dell’Isis e venerato come un "martire". La lecchese Alice Brignoli e il marito italo-marocchino Mohammed Koraichi con i figli piccoli: per la coppia il sogno della "terra promessa" in Medio Oriente è finito in un campo di detenzione curdo. Maria Giulia “Fatima” Sergio, la foreign fighter italiana che, partita da Inzago, ha cercato di trascinare la famiglia in un folle viaggio verso la Siria in guerra. Di lei si sono perse le tracce, così come il 25enne Saged Sayed Fayek Shebl Ahmed che sarebbe stato convinto dal padre ex combattente in Bosnia a lasciare la tranquilla provincia di Como per unirsi ad Al-Nusra in Siria. Su un totale di almeno 5.000 foreign fighter partiti dall’Europa nel corso degli anni, sono stimati circa 1.500 ritorni. In Italia i numeri sono molto più contenuti rispetto a Paesi come Francia e Germania.

Una decina di foreign fighter su 125 (3 detenuti e 7 monitorati dalle forze dell’ordine), emerge dall’ultimo dossier Ispi su dati dell’anti-terrorismo, sarebbero rientrati. Una cinquantina sarebbero morti. "Oggi pochi foreign fighters legati all’Italia - si legge nel rapporto Ispi - sono ancora in Siria ed Iraq. Meno di dieci sono di nazionalità italiana". Un pericolo maggiore si nasconde nelle centinaia di persone che si sono avvicinate a idee radicali spesso propagandate sul web, che la caduta dello Stato Islamico ha lasciato "senza una guida". Potenziali "terroristi in sonno", situazioni di disagio pronte a esplodere. Poi ci sono le persone espulse per motivi di sicurezza (91 solo nel 2019) che potrebbero rientrare di nascosto in Italia o in altri Paesi europei. E, infine, i detenuti che nell’arco di pochi anni torneranno in libertà.

Fra gli estremisti , uno dei primi a uscire, nell’arco di pochi mesi, potrebbe essere Nadir Benchorfi, marocchino arrestato nel dicembre 2016 perché si sarebbe detto disponibile a compiere un attentato per lo Stato islamico nel centro commerciale di Arese e condannato alla pena di 4 anni che sta finendo di scontare. "Noi abbiamo sempre sostenuto che si trattava di un mitomane non di un terrorista - spiega il suo legale, l’avvocato Francesco Laganà - di certo il fatto che tutti i condannati vengano messi nello stesso carcere, a Sassari, non aiuta percorsi di recupero. Probabilmente una volta scontata la pena verrà espulso".

Più in là nel tempo usciranno anche gli altri lombardi condannati a pene che vanno fino a un massimo di 6-8 anni. Solo per citare alcuni casi, il tunisino Lassaad Briki e il pakistano Muhammad Waqas, arrestati nel luglio 2015 dalla procura di Milano e condannati a 6 anni. Due “jihadisti della porta accanto” che, nei loro progetti, avevano anche preso di mira la base Nato di Ghedi, nel Bresciano. Abderrahmana Khachia, fratello del “martire” Oussama, e il gruppo legato al “pugile dell’Isis” Abderrahim Moutaharrik. Quasi tutt i sono detenuti nel carcere di massima sicurezza di Sassari, uno degli istituti dove è alto l’allarme per il rischio radicalizzazione. Per i non italiani si profila l’espulsione, una volta scontata la pena. E intanto, secondo il ricercatore Marone, iniziative organiche per la prevenzione nelle scuole e tra i più giovani avviate da anni in altri Paesi europei da noi ancora latitano. "La nostra intelligence funziona - spiega - quello che ancora manca è la prevenzione perché l’Italia, finora risparmiata dagli attentati, tra qualche anno potrebbe trovarsi nelle condizioni di Francia, Germania e Belgio".