L’epopea di Campione d’Italia: c’era una volta il casinò dei record

I cumenda, le nonnine in bus e la chiusura per debiti

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Campione d'Italia (Como), 9 giugno 2019 - Ancora una manciata di giorni e sarà un anno che il Casinò Campione d'Italia ha chiuso i battenti. Era il 27 luglio 2018 e a decidere per la 'fabbrica dei soldi' fu il Tribunale di Como: troppi 73 milioni di debiti e una fila di 212 creditori fuori dalla porta. Come per l'inaffondabile Titanic, a Campione è successo l'inimmaginabile: il casinò più grande d'Europa ha capitolato per debiti. All'inizio nella piccola comunità di 2mila anime, isola nel cuore della Svizzera, non ci credeva nessuno. Italiani, ma abituati a stipendi da 6-7mila euro al mese – anche perché qui la vita è cara – avevano visto troppe volte il casinò dato per spacciato risorgere come l'araba fenice.

Una storia di aperture e chiusure, incredibili fortune e rapidi rovesci. Del resto dove il business è il gioco è scontato che a dettare le regole sia la sorte. Nel 1917 nasce la casa da gioco voluta dal Regno d'Italia: motivi di spionaggio militare. In piena Guerra Mondiale l'exclave lombarda nella neutrale Svizzera sembrava il luogo ideale per costruire una casa da gioco che avrebbe dispensato vincite e raccolto informazioni. Probabilmente il più bel centro di intelligence d'Europa, progettato dall'architetto Americo Marazzi di Lugano in stile Belle Époque con due ingressi: uno verso la pedonale e uno verso il lago di Lugano, per accogliere chi arrivava in barca. All'interno un florilegio di boiserie e arredi sfarzosi, soffitti e pareti affrescati da Girolamo Romeo. Il 19 luglio del 1919 a guerra finita le sale vennero chiuse, ma già si sapeva che Campione sarebbe tornata utile.

E infatti il 2 marzo 1933 il casinò riaprì, questa volta per ordine del governo di Benito Mussolini che ufficialmente voleva permettere alle casse del Comune di riempirsi di valuta pregiata, i franchi svizzeri, ma in realtà puntava a riprendere l'attività di spionaggio. Anche in questo caso la guerra giocò la sua partita, ma contro Campione. Durante la campagna d'Etiopia (1935-36) e poi durante la Seconda Guerra mondiale il casinò venne chiuso per evitare che i dissidenti della Lombardia, con la scusa di venire a giocare, fuggissero in Svizzera. Nel 1946 il casinò riaprì, ma a mettersi di traverso furono gli svizzeri: per paura di fughe di capitali bloccarono il confine e limitarono l'accesso all'exclave a poche ore al giorno. Servì un trattato per far cambiare loro idea ma si stava andando verso il boom e dalla ricca Milano, come dal resto della Lombardia, intere generazioni di industriali impararono che la sera con la Giulia, prima sulle statali e poi in autostrada, i tavoli verdi di Campione si raggiungevano in poco più di un'ora.

Sono passati praticamente tutti da qui. Giovanni Borghi, patron della Ignis di Varese, era di casa, anche se narra la leggenda che per sbancare il casinò e far stendere il telo nero sul tavolo da gioco dovette andare in trasferta a Saint Vincent. C'era chi al tavolo verde lasciava anche 100 milioni in una sera, quando lo stipendio di un operaio si misurava in centinaia di migliaia di lire, e quando rimaneva al verde chiedeva il fido al casinò. Gli altri giocatori o i cumenda pieni di debiti come ultima ratio scendevano in parcheggio e mettevano a pegno l'auto in cambio di un milione, poi risalivano a giocarsi fino all'ultima lira.

All'inizio del mese a giocare erano le nonnine di San Babila, Bergamo e Brescia: a Campione hanno sempre avuto l'occhio lungo e andavano a prenderle in bus. Erano già gli anni '70 e ora andavano forte le slot, redditizie e meno impegnative per l'etichetta. Il fenomeno era così diffuso che se ne interessarono anche i rapinatori che presero d'assalto alcuni bus, ma sempre all'andata. Al ritorno il colpo l'aveva già fatto il banco. L'escamotage dei pullman è proseguito fino ai giorni nostri dopo che il casinò si è moltiplicato: 500 dipendenti e un palazzone da 55mila metri quadri inaugurato il 9 maggio 2007, il più grande d'Europa, costato 120 milioni di euro. Per riempirlo quando la crisi, economica e del gioco, ha colpito gli italiani sono stati chiamati in soccorso i cinesi: ogni giorno da via Paolo Sarpi partivano tre autobus carichi di giocatori. Sono serviti a far diventare il casinò il primo in Italia e il secondo in Europa, ma c'era già la sensazione della fine di un'epoca. Prima è arrivata la crisi e poi il fallimento. Ora il futuro è nelle mani di Dio e dei giudici. Rien ne va plus.