Fenegrò, padre e figlio jihadisti a processo

Il pm ha chiesto il processo con rito immediato per Sayed Ahmed Fayek Shebl, 51 anni, e per il 23enne Saged

Saged (23 anni)

Saged (23 anni)

Fenegrò (Como), 20 giugno 2018 -  Padre e figlio uniti dalla jihad, una famiglia di origine egiziana radicalizzata nel Comasco. Il pm di Milano Enrico Pavone ha chiesto il processo con rito immediato  per Sayed Ahmed Fayek Shebl, 51 anni, e per il 23enne Saged. L’uomo è detenuto in carcere, mentre il figlio partito per combattere Assad si troverebbe ancora in Siria, latitante. Il processo verrà celebrato a Como (l’udienza deve ancora essere fissata). Se il difensore sceglierà il rito abbreviato, con lo sconto di un terzo della pena, il procedimento verrà invece trasferito a Milano, come prevede la procedura.

Nel corso degli interrogatori in carcere il 51enne - arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Digos coordinata dal pool anti-terrorismo della Procura di Milano - ha negato di aver indottrinato il ragazzo, ha negato ogni coinvolgimento nella sua decisione di unirsi a formazioni terroristiche. L’uomo in passato, quando era ancora a piede libero e le indagini sul nucleo familiare residente a Fenegrò erano in corso, si era presentato negli uffici della Digos sostenendo che il figlio era «partito senza avvertire nessuno di noi, andando direttamente a Istanbul dove ha trovato un contatto che lo ha accompagnato in Siria». Secondo gli inquirenti, invece, avrebbe indottrinato il giovane, convincendolo ad arruolarsi nella brigata “Nour El Dine Al Zenki”.

Definiva un «cane» che «vive nel peccato» il secondogenito, “colpevole” di aver fatto di tutto per integrarsi in Italia. Il 51enne, tra l’altro, ha un curriculum di tutto rispetto nella “guerra agli infedeli”: aveva combattuto in Bosnia nelle fila musulmane, per poi trasferirsi in Italia nel 1996. Ha lavorato per anni come saldatore, fino a quando è rimasto disoccupato e ha dovuto mantenere la famiglia con impieghi saltuari. Dal 2015, secondo quanto è emerso dalle indagini, parte degli introiti sarebbero stati inviati in Siria per sostenere il figlio impegnato nella lotta armata. «Io l’ho mandato con una certa intenzione, che lui andasse là per purificarsi, per diventare un essere umano», spiegava alla moglie Halima, espulsa dall’Italia, in una conversazione intercettata dalla Digos