«La vita vale la pena di essere vissuta, anche così, nell’immobilità», ripeteva Marco Plebani, eterno ragazzo imprigionato per 35 anni in un corpo inerte (tranne il movimento di qualche dito, degli occhi e delle labbra) a causa di un brutto incidente in motocicletta. Ieri nella Casa di riposo Prina di Erba Marco ha cessato di vivere una vita che aveva affrontato con grande coraggio e il sorriso. Parlava attraverso il movimento degli occhi e pigiando il pulsante di una sofisticata macchina. Le sue parole apparivano su uno schermo e a lui bastava questo per vivere. Tanti erbesi si erano affezionati a Marco e andavano a trovarlo nella sua stanza al primo piano. Grazie a una mobilitazione della città, commossa dopo l’incidente stradale dal quale uscì malconcio nel 1978, riuscì ad avere a disposizione quella tecnologia per comunicare con il mondo.

Prima che la sua testa colpisse il cordolo di un marciapiede nel pieno centro di Erba era un ragazzo pieno di vita. Studente di medicina, amava il nuoto, lo sci e il judo. Andò in coma. Si risvegliò lentamente dopo alcuni anni in quel corpo ormai danneggiato, ma non smise mai di lottare per la vita anche senza la possibilità di parola. È rimasto immobile fino a ieri in un letto o su una speciale sedia grazie alla quale tanti volontari e amici potevano portarlo a spasso per le vie della città, dove ogni tanto lo si incrociava e lo si vedeva accennare sorrisi. Continuava a sognare grandi cose. La Formula uno e la Ferrari, le piste da sci di Saint Moritz dove ogni tanto chiedeva di essere accompagnato. «Vale sempre la pena vivere», ripeteva quando i temi dell’eutanasia e del «fine vita» erano sulla bocca di tutti. Dopo la morte del padre e della madre era rimasta Silvana, la sorella, a prendersi cura di lui.
 

di Federico Magni