Erba, 11 dicembre 2012 - «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta.

Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente».

Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria».

Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda.

Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi».

Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».

di Gabriele Moroni

gabriele.moroni@ilgiorno.net