Como, 22 settembre 2011 - A osservarlo da qui il lago sembra un animale ferito, chiuso in gabbia dalla serie ininterrotta di palizzate pensate per tenere lontani i curiosi dal cantiere delle paratie, quasi a voler separare la città dallo specchio d’acqua che le appartiene da secoli e che porta il suo nome. «La prima volta che vi arrivarono i romani qui c’era solo una grande palude. Il lago esondava anche allora ma tutto era nello stato naturale delle cose, tanto che i primi abitanti di Como i loro palazzi più importanti li costruirono a debita distanza dall’acqua».

È un sorriso amaro quello di Darko Pandakovic, architetto, docente di Architettura del Paesaggio al Politecnico di Milano e consulente per l’Unesco al patrimonio storico, che quel cantiere in riva al lago l’ha visto crescere giorno dopo giorno, dalle finestre del suo ufficio. «Non mi ha mai convinto il progetto di costruire un sistema di paratie a protezione della città – spiega – il problema di Como non è l’acqua che arriva da lago ma quella che vi entra dalla città. Piazza Cavour e gran parte del bacino su cui sorge la città poggiano su terra di terra di riporto, accumulata secolo dopo secolo man a man che gli abitanti della città intrapresero la loro opera di bonifica, mangiando spazio al lago. I palazzi, le strade e le piazze poggiano su questo terreno che è solcato dall’acqua. È solo grazie a uno straordinario sistema di pendenze, dai punti più alti fino a piazza Cavour che si trova alla quota più bassa, se fino a oggi tutta città si è retta in equilibrio perfetto».

Come i palazzi nelle calli di Venezia non potrebbero reggersi in piedi una volta che i suoi canali fossero completamente prosciugati, così anche Como potrebbe rischiare grosso il giorno in cui le sue acque sotterranee non fossero più libere di riversarsi nel lago. «Purtroppo non è una mera ipotesi, qualcosa del genere sta già avvenendo nella zona dei Giardini a lago, dove i lavori per le paratie sono più avanzati. Qui per permettere il lavoro degli operai hanno creato un bacino impermeabile subito prima della darsena con il risultato che la falda, nelle immediate vicinanze, si è alzata di livello. Come una diga al contrario l’acqua non entra dal lago ma non può più uscire verso di esso. I palazzi, specie nei punti più bassi, iniziano già a mostrare le prime crepe, si tratta di un fenomeno preoccupante».

Per fortuna oggi l’acqua riesce ancora a entrare nel lago facendo giri più lunghi, il vero rischio lo si correrà il giorno in cui tutto il bacino sarà reso impermeabile. «Ho sempre pensato che i fondi della legge Valtellina si sarebbero rivelati un male per questa città. Como è abituata alle piene del lago, vi ha sempre convissuto e in questa storia millenaria nessun incidente alle persone è mai stato provocato dal fluire e refluire delle acque. Ci troviamo di fronte a un progetto che da un lato non offre garanzie di reale soluzione del problema piene, ammesso che di problema si possa parlare, e dall’altro rischia di provocare danni più gravi di quelli che va a risolvere.

Probabilmente anche per questo i lavori si sono rallentati, si procede a vista perché ci si è accorti, tardi purtroppo, delle conseguenze che le paratie potrebbero avere». Un’opera di grande complessità che la politica ha deciso di gestire con mezzi propri, affidandone la gestione agli uffici comunali. «La storia degli ultimi anni ci insegna che una sola volta Como non ha mancato un appuntamento con una grande opera, quando sono stati costruiti i depuratori sotto il Baradello. Allora si decise di affidare la progettazione e l’esecuzione a una ditta norvegese che compì un lavoro straordinario ultimando il cantiere addirittura quattro mesi prima del previsto. Qui siamo di fronte a un’opera molto complessa dal punto di vista architettonico e dal punto di vista idraulico, le competenze necessarie per fare un buon lavoro esistono ma vanno cercate fuori dalla città». Una scelta inspiegabile per Pandakovic.