Gino, la tua passione per gli ultimi e quel viaggio verso Bagdad

Il medico e l'idea di fondare Emergency per dedicarsi, con la moglie Teresa, alle vittime delle guerre

Gino Strada, il fondatore di Emergency

Gino Strada, il fondatore di Emergency

Uno dei primi personaggi che ebbi l'occasione di incontrare, da acerbo cronista abusivo della Notte nel 1988, era un medico cresciuto a Sesto San Giovanni, tale Gino Strada, sempre a fianco della moglie Teresa, bella donna dai capelli rossi e il sorriso radioso. Si era laureato dieci anni prima e lavorava all'ospedale di Rho, ma già era stanco di fare il cardiochirurgo in ospedale. Non che la considerasse un'attività minore. Solo che il suo orizzonte era ben più vasto. Ateo convinto, in realtà era amico di Don Gallo e il suo cuore a me appariva più cristiano di quasi tutti i cristiani che io avessi mai conosciuto. Aveva, in particolare, una passione per gli ultimi, gli sfigati, e chi può esserlo più di un profugo o un poveruomo che vive in un Paese in guerra?

Così, nella sua casa di Milano, mi raccontò della sua idea, per la quale stava cercando qualche fondo. Una creatura che si sarebbe occupata, nel mondo, delle vittime civili dei conflitti. Dei mutilati, di chi ha perso un lavoro, la famiglia, la casa. Lui e Teresa mi parlarono anche del nome di quell'idea, Emergency, e ne venne fuori un articolo come tanti, di fatto la premessa a un progetto che nessuno sapeva ancora se sarebbe diventato realtà, o rimasto sogno.

Lasciò il lavoro in ospedale e per cinque anni se ne andò a fare il chirurgo in molte zone di guerra, con la Croce Rossa. Gino e Teresa erano d'accordo su tutto, non avevano ancora quarant'anni ma una grinta da vendere. E soprattutto potevano contare su amici che credevano in loro, il segreto di molte imprese di successo. Emergency sarebbe nata nel '94, ufficialmente solo nel maggio del '96, e subito a dargli fiducia sarebbe stato Maurizio Costanzo, fondamentale per creargli attorno una rete di sostenitori. Fu proprio a Roma che ci incontrammo una secinda volta, io andavo a parlare di curdi (che lui ben conosceva, avendo piani di intervento nel Nord Iraq), lui tornava dopo aver spiegato i suoi progetti in Afghanistan.

E fu proprio quella sera che si fermò a lungo a raccontarmi degli studenti di teologia che stavano assediando Kabul, per instaurare uno Stato ispirato alla più rigida shaaria. "Sarà una cosa tremenda", disse. E aveva a dir poco ragione. Questo non gli impedì, cinque anni dopo, di condannare con forza l'intervento americano, seguito all'attacco delle Twin Towers, ma in piena coerenza. Perché lui era, lui nasceva contro la guerra. Lo stesso motivo per cui rifiutò i contributi del governo ai suoi ospedali, sostenendo che non poteva prendere soldi da chi partecipava a una coalizione bellica internazionale contro lo stesso Paese.

Al suo fianco c'era sempre Teresa, dolcissima anche quando parlava delle polemiche che erano piovute addosso ad Emergency, per la scelta di autofinanziarsi. Un giorno mi telefonò e mi propose di fare un giro in Iraq, insieme a un filmaker e a un creativo milanese. L'idea era di realizzare un documentario sui loro ospedali e loro attività. Era il 2003 e non mi sembrò vero. Nel Paese c'erano già gli americani e arrivammo ad Amman un mese dopo la caduta, in Iraq, della statua di Saddam. In un interminabile viaggio in autostrada, sei corsie per lato senza una curva, dopo 800 chilometri eravamo a Bagdad. Il resto sono ricordi personali, ma quel che qui conta fu il viaggio negli ospedali e nei centri di riabilitazione di Emergency a Suleymania e Erbil, che un giorno sarebbero state prese dall'Isis. Nelle piccole aziende artigiane di microcredito che Gino e i suoi avevano creato per ridare una possibilità a chi era saltato su una mina, restando in vita, ma inabile al lavoro manuale. Riempimmo i taccuini di appunti, e a volte gli occhi di lacrime, e il documentario di mezz'ora ("L'arcobaleno e il deserto") uscì con la voce di Moni Ovadia. Teresa ne fu soddisfatta e per noi tre il privilegio di avere collaborato con lei rimase indelebile.

Teresa ci ha lasciati dodici anni fa e Gino ha continuato inossidabile il suo lavoro, insensibile ai detrattori, forse nella coscienza di avere curato almeno dieci milioni di pazienti, gratis. Credo che non abbia battuto ciglio, forse al massimo fatto un sorriso dei suoi, quando gli hanno dedicato addirittura un asteroide. Chi, come me, ogni tanto chiedeva novità agli amici, sapeva che lui, cardio chirurgo, era molto malato di cuore. I quattro by-pass li aveva da tempo ma non erano stati sufficienti a fargli abbandonare un altro suo grande amore, la sigaretta. Forse perché teneva soprattutto alle vite degli altri, ma non faceva troppo caso alla propria.

Ci ha lasciato due creature straordinarie. Emergency, appunto, che continuerà a seminare del bene nei luoghi più devastati del pianeta. Anche nella stessa Kabul che – paradosso del dio Kronos - a giorni cadrà in mano ai talebani. E Cecilia, nata nel '79, che oggi, non a caso, sulle orme di papà è su una nave in mezzo al Mediterraneo, a salvare la vita ai migranti. Tra le tante domande, quando se ne va un uomo così, una sola certezza: lui e Teresa ne sarebbero orgogliosi.