Avanti con giudizio

Salvini e Di Maio vorrebbero per palazzo Chigi un esterno di grande autorevolezza che rassicuri il mondo internazionale sulla compatibilità del loro impegno con gli accordi economici e politici dell’Italia

Milano, 12 maggio 2018 - Il nome ancora non c’è. Salvini e Di Maio vorrebbero per palazzo Chigi un esterno di grande autorevolezza che rassicuri il mondo internazionale sulla compatibilità del loro impegno con gli accordi economici e politici dell’Italia. Si è fatto il nome di Giampiero Massolo, un ‘civil servant’ politicamente trasversale, già segretario generale agli Esteri, capo dei servizi segreti e ora presidente di Fincantieri. Ma ieri sembrava più probabile che Massolo diventasse ministro. E’ certo comunque che sia Salvini che Di Maio faranno parte del governo, ma nessuno dei due dovrebbe guidarlo. Si è parlato di una staffetta , come quella tra Craxi e De Mita a metà degli anni Ottanta. Ma l’idea è caduta dinanzi a un ostacolo decisivo: chi comincia? I ritmi della vita e della politica sono così vorticosi che nessuno si azzarda a sapere che cosa sarà accaduto a metà legislatura, tra due anni e mezzo. Non siamo più ai tempi di Piccoli, Rumor e Forlani che erano intercambiabili nei decenni. Sia il nome di un premier del M5s che di uno della Lega farebbe in un secondo il giro del mondo provocando fatalmente semplificazioni dello stesso accordo di governo in corso di stesura.

Quindi meglio un ‘nome terzo’, un air-bag che ammortizzi il colpo. Ancora meglio se donna. Ma trovarla non è facile. L’altra domanda chiave di questi giorni è quella sul programma: come faranno i due partiti a mantenere le promesse economicamente insostenibili fatte in campagna elettorale? Non si segnalano dissensi apprezzabili. Ieri il secondo incontro del quartetto (Di Maio Spadafora/Salvini Giorgetti) è andato ‘benissimo’ e oggi a Milano sarà allargato alla squadra ristretta che stende materialmente il programma. La chiave sta nella modulazione progressiva dei progetti. L’erogazione del reddito di cittadinanza partirà all’inizio dell’anno prossimo. Il secondo semestre di questo sarà impiegato nella ristrutturazione degli uffici di avviamento al lavoro oggi del tutto inefficienti: in Italia ci sono 300 disoccupati per ogni addetto, contro i 57 della Francia, i 32 del Regno Unito e i 21 della Germania. Non è un caso perciò se l’84 per cento delle assunzioni avviene per amicizie e conoscenze. Nemmeno la ‘flat tax’ partirà subito ai livelli promessi in campagna elettorale. Dovremo aspettare molto tempo per arrivare al 15 per cento, mentre è ragionevole immaginare una partenza tra il 20 e il 25: più o meno quanto aveva suggerito Berlusconi e che Salvini avrebbe accettato senza difficoltà.

Il terzo elemento sensibile del programma è il conflitto di interessi. Non verrà ritirato, ma scritto in modo non mirato a punire pesantemente Berlusconi e a indebolire Mediaset. Sono trascorsi 23 anni da quando Walter Veltroni fu sorprendentemente sconfitto nel referendum sull’abolizione della pubblicità televisiva durante i film («Non si uccide un’emozione») che avrebbe ucciso la televisione commerciale. Il governo Gentiloni ha difeso Mediaset dagli assalti francesi ed è difficile aspettarsi una politica opposta dal nuovo governo. A voler pensar male, poi, si rammenti che il nuovo governo avrà al Senato soltanto sei voti di maggioranza. La ‘comprensione’ di Forza Italia potrà tornare utile in più d’una occasione. Domani Salvini e Di Maio dovrebbero comunicare a Mattarella i termini dell’accordo per poi proseguire speditamente. Di Maio è il più interessato ad evitare incidenti di percorso. Se si andasse a votare subito, le probabilità che il centrodestra prenda la maggioranza assoluta non sono poche.