"Ti facciamo fare la fine di Sana Cheema": il racconto choc in tribunale di Amira

La testimonianza di una ragazza pakistana si è ribellata alla famiglia violenta che le aveva imposto il matrimonio

Una manifestazione della comunità di immigrati dal Pakistan dopo il delitto di Sana Cheema

Una manifestazione della comunità di immigrati dal Pakistan dopo il delitto di Sana Cheema

Brescia - "Nella nostra cultura le punizioni corporali sono la norma. Noi ragazze veniamo educate alla sopportazione per non scappare dal marito una volta sposate. I ragazzi a guadagnare e mantenere il controllo sulla famiglia". È una storia choc quella raccontata ieri in aula da Amira – nome di fantasia – 24enne pakistana fino a un anno e mezzo fa di casa con i genitori e cinque fratelli – tre femmine e due maschi - a Concesio, bassa Valtrompia. "Farai la fine di Sana Cheema" l’avrebbe minacciata il fratello facendole un occhio nero per piegare le intemperanze da ‘cattiva musulmana’ e ricordandole la connazionale di Brescia che si ritiene uccisa in Pakistan nel 2018 dai parenti per essersi opposta alle nozze.

La sera del 25 agosto 2019 Amira e le tre sorelle, di 19, 13 e 12 anni, fuggirono al pronto soccorso. E con il supporto della Rete antiviolenza denunciarono i familiari. Oggi a processo ci sono la mamma, il padre e il fratello trentenne. Rispondono di maltrattamenti, lesioni e tentata induzione al matrimonio, reato introdotto con il Codice rosso. Le ragazze sono in comunità protetta, gli imputati sottoposti a divieto di avvicinamento. La goccia che fece traboccare il vaso quell’agosto fu l’ennesima lite. Il fratello maggiore le avrebbe obbligate a ritirargli il piatto con cui aveva cenato sul divano. Il ‘no’ scatenò l’inferno.

"Dopo averci picchiate con mattarelli, manici di scopa e un cesto e averci inseguito in camera, dove non potevamo più rifugiarci perché avevano rotto la serratura della porta a forza di sfondarla, mamma e papà ci dissero che gli studi ci avevano messo sulla cattiva strada. Ci avrebbero riportato in Pakistan. Noi sorelle grandi ci saremmo sposate, le piccole sarebbero andate in convento", ha raccontato Amira, laurea triennale in Cattolica da assistente sociale. Le valigie con gli abiti tradizionali – compresi quelli del fidanzamento – furono trovate pronte dalla Polizia con i passaporti delle bambine. Gli altri invece li aveva presi la primogenita.

"Per noi il contratto di nozze è prassi. Quando è iniziata la ricerca di un cugino di pari grado sociale, sono andata alla Casa delle donne. Mi dissero di denunciare, ma non lo feci per non lasciare le sorelle e non creare problemi a mio fratello che attendeva la cittadinanza. L’ho tirata in lungo. L’accordo prevede che mi sarei sposata dopo la mia laurea e il diploma delle sorelle. Sapevo che se mi fossi tirata indietro avrei rischiato la vita". Amira è scoppiata in lacrime riferendo della sospetta morte di una zia, in Pakistan. "Non si era sposata e fu rinchiusa in convento. Ogni volta che tornava a casa la picchiavano a sangue: avevo 6 anni e vidi. Mi spiegarono che era morta una notte per la febbre alta". Per anni le giornate sarebbero state scandite da preghiere dalle 5 del mattino e mansioni domestiche. "Mia mamma minacciò pure di strangolarmi con un foulard". E oggi? "Mi spiace avere fatto stare male i miei ribellandomi. Ma sogno un lavoro fisso, una casa mia, e l’affido delle sorelle".