Jihad, tutte le strade portano a Brescia. Da 10 anni fronte della lotta al terrore

L’ultimo arresto: un kosovaro che indottrinava il figlioletto al martirio

Combattenti dell'Isis (Olycom)

Combattenti dell'Isis (Olycom)

Formava persino il figlioletto di pochi anni alla jihad facendogli ascoltare canti religiosi che chiaramente inneggiavano al martirio. La Digos della Questura di Brescia e l’Antiterrorismo hanno arrestato un kosovaro di 24 anni, G.D., che su internet aveva pubblicato il video “Tut Elimi de Gidelim Cihada” che in turco significa “Prendi la mia mano e andiamo alla jihad”. Accusato di terrorismo, in rete aveva ripetutamente esaltato e manifestato solidarietà verso 4 terroristi arrestati fra il Kosovo e la Macedonia, e verso 7 Imam catturati nel marzo del 2014 in Albania.

Brescia, 4 novembre 2016 - Inchieste disposte da molte Procure - Roma, Brescia, Bari, Palermo -, dopo che le carte segrete dei servizi libici hanno descritto una rete jihadista infiltrata in Italia. A Brescia la storia viene da lontano. Nell’ottobre del 2006 i tre magistrati dell’area terrorismo hanno già in corso una decina di inchieste. Nel mirino un grappolo di personaggi legati alla cellula di Cremona, colpita per terrorismo internazionale a Brescia (due condanne) e a Cremona (tre condanne in Assise). Un anno prima, tra Brescia e Napoli, i carabinieri del Ros hanno blindato tre algerini, accusati di reclutamento per conto di cellule salafite. Nel giugno del 2009 la Digos scardina l’attivività di un gruppo formato da 5 pachistani e da un hacker filippino, a novembre quella di un’agenzia di money transfer gestita da 2 pachistani. A Brescia e nel suo territorio il tessuto d’immigrazione è importante e può agevolare i contatti. A essere radicalmente cambiati, dall’epoca di Al Qaeda, sono i metodi di arruolamento. Allora il collante erano la moschea e le frequentazioni personali. Oggi è il web ad azionare quello che i criminologi chiamano “uncinamento”: il richiamo diretto, senza intermediari, su persone che si sentono non solo accettate, ma addirittura cercate, volute. Emblematica la parabola di Anas El Abboubi, marocchino.

La polizia gli entra in casa, a Vobarno, in Valsabbia, all’alba del 12 giugno 2013. Anas sta per compiere 21 anni, è in Italia da 14, sogna di fare il rapper. Attraverso street view di Google pare avere evidenziato le coordinate di possibili bersagli da colpire a Brescia: il cavalcavia Kennedy, la stazione, l’ex caserma Goito, il Crystal Palace. Sul desktop ha salvato il testamento spirituale e una preghiera: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, ho sete di battaglia, Jihad contro l’Italia». Scarcerato dal Riesame, studia per la maturità ma poi svanisce nel nulla. Finché posta alcune foto sul suo profilo Facebook, armato di mitra, il capo coperto dalla Kefiah. È un “foreign fighter”. A traghettarlo in Siria sarebbero stati Alban ed Elvis Elezi, zio e nipote albanesi, entrati nell’operazione “Balkan Connection” fatta scattare dalla Procura di Brescia nel marzo dello scorso anno. «Non ci sarà più un Papa dopo questo, lui è l’ultimo. Non dimenticatevi ciò che vi sto dicendo», scrive su Facebook il muratore kosovaro Samet Imishti, bloccato nel suo paese ma domiciliato a Chiari. «Siamo scelti da Allah per compiere queste azioni terroristiche», è il messaggio messo in rete da Lassad Briki, tunisino, e dal pachistano Muhammad Waqas, trapiantati a Manerbio. Per gli investigatori sono cani sciolti. Studiavano online il manuale dei mujaheddin ma erano pronti a trasferirsi in Siria per l’addestramento militare. Nelle intercettazioni si parla di attentati al Duomo di Milano, al Colosseo, alla base militare di Ghedi, alla stazione ferroviaria di Brescia. Sono stati condannati a 6 anni per terrorismo internazionale.