Sana è stata strangolata, il papà confessa

Brescia, il referto dell’autopsia: "Spezzato l’osso del collo". Mustafa Ghulam arrestato col figlio "Abbiamo litigato, lei mi ha insultato"

Sana Cheema

Sana Cheema

Brescia, 10 maggio 2018 - Il referto dell’autopsia del Punjab forensic laboratory lo mette nero su bianco: «Osso ioide (tra laringe e mandibola, ndr) fuori asse». Rotto, dunque. Sana Cheema è morta strangolata. A casa dei genitori, nel villaggio di Mangowal, in Pakistan. Per l’onore. Uccisa dai maschi del clan che volevano piegarla al diktat del matrimonio. Nessun infarto, come era stato detto dalla famiglia per archiviare il caso. «Ho perso la testa, ho fatto tutto io – ha confessato Mustafa Ghulam, il padre della ragazza, arrestato dalla polizia con il figlio maggiore Adnan e il fratello Mazhar Iqbal -. Abbiamo litigato. Lei mi ha insultato. Gli altri non c’entrano», si è giustificato l’operaio 55enne, provando a scagionare i parenti in stato di fermo dal 24 aprile e ora in carcere. Nell’omicidio risultano coinvolti anche un cugino, che avrebbe fatto da autista per il trasporto del cadavere seppellito nemmeno 12 ore dopo il delitto nel cimitero di Kot Fath, lontano dalla città di residenza. E un medico, autore di un certificato di morte falso.

Bresciana da settembre – aveva ottenuto la cittadinanza - un lavoro in una scuola guida in città, Sana era innamorata di un coetaneo italo-pakistano di Brescia che frequentava da qualche anno. Lui pero era impegnato con un’altra donna, una cugina con cui si è fidanzato in febbraio. Una frequentazione travagliata, non vista di buon occhio nelle campagne del Punjab, terra agricola e chiusa da cui provengono i Cheema, che premevano perché la figlia più giovane si sistemasse e non frequentasse uomini senza impegno. «Torno in Pakistan per risolvere una questione urgente», aveva lasciato detto Mustafa ai colleghi della Innse cilindri, la fabbrica siderurgica di Brescia di cui era dipendente, poco prima di fare le valigie per la terra d’origine, 40 giorni prima di uccidere la figlia. Le nozze mancate. Un bubbone. Lei, Sana, era rientrata a Mangowal a fine 2017.

A gennaio e febbraio anche il suo amore era laggiù. Per fidanzarsi con la cugina. La madre sapeva di quella relazione che faceva chiacchierare tutti. E per mediare tra il clan e la figlia aveva pure parlato con il ragazzo. Si era fatta avanti con la famiglia di lui così da combinare le nozze, ma la trattativa è naufragata. «Sana ha smesso di mangiare, si è ammalata ed è morta per le complicazioni» era la versione fornita dalla donna alla polizia per coprire il marito, il quale spingeva più che mai per farla accasare, possibilmente con un parente, in vista del rientro in Italia. Per avvalorare la versione della tragica fatalità i Cheema avevano prodotto il certificato del pronto soccorso alla clinica di Mangowal, dove la ragazza l’11 aprile, una settimana prima di morire, era arrivata in preda a vomito e pressione bassa. I parenti avevano persino instillato il sospetto di una sottovalutazione clinica. Ma Shiraf Khazif, il medico che l’aveva presa in carico, ha smentito qualsiasi criticità. La storia di Sana, diventata virale sul web, ha suscitato una ferma presa di posizione della comunità pakistana in Italia: «Ci dissociamo da questa barbarie. Chi compie atti simili va isolato», ha detto il segretario, Raza Asif. A Brescia, intanto, domenica si terrà una manifestazione per ricordare la ragazza. Vittima della sua voglia di essere libera.