Brescia, l'omicidio di Sana Cheema: a processo padre e fratello

I due uomini sono accusati di aver strangolato la giovane pakistana, stralciati tutti gli altri indagati

Sana Cheema, 25 anni

Sana Cheema, 25 anni

Brescia, 26 settembre 2018 - Ha pagato con la vita il suo desiderio di autodeterminarsi e di non soggiacere al diktat familiare delle nozze obbligatorie, preferibilmente con un parente "raccomandabile". A poco più di cinque mesi dalla morte di Sana Cheema, la 25enne pakistana di Brescia uccisa lo scorso 18 aprile dal padre e dal fratello maggiore a Mangowal, piccolo villaggio in Pakistan, le autorità locali hanno chiuso l’indagine. E per Mustafa Ghulam, 55 anni, e il figlio primogenito Adnan, 30 anni, si è aperto il processo. Accusati di omicidio volontario e sepoltura non autorizzata, sono alla sbarra davanti alla Session court, pari alla Corte d’Assise in Italia. Si sono già celebrate due udienze.

«Rischiano l’ergastolo se non la pena di morte», dichiara il portavoce della comunità pakistana in Italia, Raza Asif. A Brescia da 15 anni, in tasca la cittadinanza italiana, un lavoro in una scuola guida per stranieri aperta da lei, Sana in gennaio torna nel Paese d’origine per ragioni poco chiare. Qualcuno sostiene debba sposarsi, altri dicono che il viaggio sia legato al parto recente della sorella. La madre di Sana si trova laggiù e il padre, operaio in fabbrica alla Innse Cilindri in città, la raggiunge: «Ho un grosso problema da sistemare» lascia detto.

La sera del 18 aprile la ragazza, poche ore prima di prendere il volo di ritorno, muore. «Infarto», è la versione della famiglia, che la mattina seguente si affretta a seppellirla in un cimitero a Kot Fath, lontano da Mangowal, e poi deposita all’Ambasciata un certificato per morte naturale. «Sana soffriva di ulcera e bassa pressione perché non mangiava a causa del mal d’amore», ripetono i genitori, con cui la 25enne litigava perché frequentava un connazionale di Brescia promesso sposo a un’altra. Gli amici bresciani però non credono all’infarto. E’ un’amica in particolare a sospettare il «delitto d’onore». Quel sospetto diventa un’onda virale che fa il giro del mondo: viene aperta un’inchiesta in Pakistan e riesumato il cadavere. E’ il 25 aprile: padre, fratello e zio paterno vengono fermati. Sana presenta l’osso ioide, tra laringe e mandibola, fuori asse. Strangolamento, decreta l’autopsia. «Ho fatto tutto io, abbiamo litigato, mia figlia mi insultava pesantemente», confessa Mustafa tentando di scagionare i parenti. Lo zio di Sana nei giorni seguenti viene scarcerato perché non c’è prova della sua partecipazione attiva, mentre gli accertamenti incastrano Adnan, accusato di averla immobilizzata.

Finiscono in cella pure un poliziotto e un dipendente del laboratorio di scienze forensi: un personaggio vicino alla famiglia Cheema ha allungato una mazzetta di seicentomila rupie, 7.400 euro, per truccare l’esito dell’autopsia, senza esito. L’inchiesta inizialmente coinvolge pure un cugino di Sana, sospettato di aver fatto da autista al cadavere, un medico, autore del certificato di morte falso. E persino la madre, che ha coperto tutto. «Le loro posizioni sono state stralciate – rivela Asif – In Pakistan è dura portare a processo chi ha responsabilità collaterali. Quantomeno siamo certi che gli autori materiali del delitto pagheranno».