Matrimoni combinati, ribelli in fuga: "Ma denunciare è ancora difficile"

Dopo i casi di Hina e Sana, nel Bresciano aumentano le richieste d’aiuto: "Solo il 30% arriva sino in fondo"

Alcune ragazze con il velo (foto repertorio)

Alcune ragazze con il velo (foto repertorio)

Ha scelto la via più difficile, quella di lasciare la famiglia d’origine per evitare un matrimonio combinato. "Una vicenda che ricorda quella di Sana, che seguiamo come amministratori", spiega la vicesindaca di Montichiari, Angela Franzoni, che nei giorni scorsi ha aderito alla protesta simbolica del taglio della ciocca in solidarietà con le donne in Iran. "Anche noi, nel nostro piccolo, ci troviamo a dover tutelare ragazze di seconda generazione che non condividono le tradizioni delle loro famiglie". Il caso più complicato, appunto, è quello di una minorenne di origine pakistana, decisa a rifiutare un matrimonio combinato, ora in affido in una struttura protetta.

La vicenda è tutt’altro che un’eccezione. Agli onori della cronaca balzano solo i casi più drammatici, come quello di Hina Saleem, italopakistana uccisa nel Bresciano nel 2006 perché non voleva adeguarsi agli usi della tradizione (condannati il padre e due cognati) e di Sana Cheema, anche lei residente a Brescia, morta in Pakistan nel 2018 per aver rifiutato le nozze combinate (a dicembre si aprirà il processo per il padre e il fratello). Ma il fenomeno dei matrimoni combinati, che diventano forzati quando le ragazze si oppongono, è molto più diffuso. A Brescia, il centro anti-violenza ‘Butterfly’ segue 3 giovani già in casa rifugio (una quarta è in arrivo), ma le ragazze originarie di Pakistan, India, Nord Africa che chiedono aiuto sono in aumento, anche per effetto dei casi di cronaca e della sensibilizzazione nelle scuole. Il cav ‘Chiare acque’ di Salò segue 3 ragazze in struttura, ma il numero è solo la punta di un iceberg.

«Molte donne di origine straniera vittime di violenza – spiega Daniela Ravanelli, operatrice di ‘Chiare acque’ – ci raccontano che il loro matrimonio è stato combinato, fa parte della tradizione di alcune culture, come era da noi fino a 50 anni fa. Talvolta rientrano anche questioni economiche o necessità di assistenza agli anziani. Riguarda sia le femmine sia i maschi, ma i ragazzi hanno più strumenti per sottrarsi". C’è chi accetta il matrimonio, perché convinta che i genitori sappiano fare la scelta migliore. Chi prova a sottrarsi, andando incontro a pressioni psicologiche, fisiche, coercitive: in tal caso, il matrimonio diventa forzato, reato perseguibile grazie alla legge ‘Codice rosso’. "Questo aspetto – evidenzia Ravanelli – non è però, molto incisivo, perché poche ragazze denunciano, anche quando vengono messe in protezione: non vogliono far del male alle loro famiglie. Quelle che denunciano, un 30% per il nostro osservatorio, si sottopongono a processi pesanti, che spesso si risolvono in assoluzioni".

Se nel Nord Europa si tende a mediare, per salvaguardare l’incolumità delle ragazze mantenendo i contatti con la famiglia, in Italia la normativa non permette strade diverse dall’allontanamento, che comporta un cambio radicale: trasferimenti in altre regioni, persino nuove identità. "Prima di metterle in protezione, le ragazze seguono con noi un percorso di sostegno psicologico. Solo se e quando riteniamo che siano pronte, procediamo con l’allontanamento. In anni di esperienza, mi è capitata solo una ragazza che sia tornata indietro – spiega Ravanelli -. Molte, però, anche ad anni di distanza, continuano a chiedersi se abbiano fatto la cosa giusta". Per la stessa famiglia la situazione è di sofferenza: la madre viene ritenuta responsabile di non averla educata e controllata efficacemente, le sorelle rischiano di non fare buoni matrimoni. "Un vulnus enorme – spiega Ravanelli – c’è sofferenza da tutte le parti. La strada è quella della sensibilizzazione e della prevenzione".