Strage di Pontevico, Viscardi chiede Dna su Manolo: "Provate che è morto"

Guido Viscardi: "Massacrò la mia famiglia"

Guido Viscardi mentre esce dal tribunale dopo il verdetto non doversi procedere

Guido Viscardi mentre esce dal tribunale dopo il verdetto non doversi procedere

Pontevico (Brescia), 15 agosto 2020 - La sua vita scorre sempre uguale, dalle sei del mattino alle dieci di sera, e non conosce né sabati né domeniche, né Natale né Pasqua. La villetta. La Madonna in gesso accanto alla grande croce fabbricata con il legno del pavimento bagnato dal sangue dei genitori e dei due fratelli. Il lavoro nei capannoni dove alleva i suoi 70mila polli. Guido Viscardi ha 58 anni. Da trenta è un sopravvissuto. L’unico sopravvissuto della strage a Torchiera di Pontevico. Si salvò perché abitava a 200 metri dalla casa dei genitori, fuori dalla traiettoria presa da Manolo e dalla sua banda feroce all’uscita dall’autostrada. Guido Viscardi, trent’anni dopo cosa chiede? «Di essere ascoltato. Che qualcuno mi dia retta. Mi hanno chiuso tutte le porte in faccia. Sono qui che aspetto. Hanno creduto a quella ragazza che sostiene di essere la figlia naturale di Manolo. È saltata fuori a dire che lui è morto di tumore in un ospedale, ha fatto vedere una tomba con sopra quattro assi. Mi chiedo: dov’era prima, perché non si era mai fatta viva». Dalle autorità serbe è arrivato alla Corte d’Assise di Brescia anche il certificato di morte. «Però un mese prima, quando era stato chiesto dove fosse finito questo Manolo, dalla Serbia avevano risposto che non sapevano neanche chi fosse. Possibile che nessuno conoscesse un detenuto di quel livello? Un mese dopo è saltato fuori il certificato che afferma che era morto nell’ospedale del carcere. Così, dall’oggi al domani. E dalla mattina alla sera era spuntata quella che sosteneva di essere sua figlia. Io non ci credo». Cosa vorrebbe? «Trent’anni dopo sono ancora più arrabbiato Non cerco la carità. Voglio la verità. Voglio una cosa ufficiale. Tiriamo su quello che c’è nella toma. Voglio la certezza del Dna. Prelevino un pezzo d’osso, qualcosa, e facciano la comparazione con il fratello di Manolo che è detenuto nel carcere di Fossombrone. Voglio sapere chi c’è in quella tomba. Voglio sapere se quello che è dentro è davvero l’uomo che ha massacrato la mia famiglia. È un mio diritto. Ed è un dovere dello Stato ascoltarmi. Voglio una certezza. In trent’anni mi hanno raccontato un mare di balle. Lo chiedo anche per la mia tranquillità e per quella della mia famiglia. Non dimentico quello che disse Manolo al processo a Kragujevac: ‘Se mi succede qualcosa dite a quello con il pizzetto che torno trovarlo’. Quello con il pizzetto ero io». È vero che le si presentò un tizio offrendosi di eliminare Manolo? «Mi telefonò credo quello stesso anno. Poi venne a trovarmi. Mi chiese cinquanta milioni di vecchie lire. ‘Ti chiedo poco e ti porto la testa di Manolo’. Lo feci scappare. Non l’ho più rivisto né risentito. Non voglio vendetta. Voglio giustizia, giustizia vera. Anche se la voragine che ho dentro me la porterò fino alla tomba». Com’è stata la sua vita in questi trent’anni? “La famiglia, ia moglie e le nostra figlie. Il lavoro. Il pensiero per i mieri morti, 365 giorni l’anno e 24 ore al giorno. Nel 2010 ho fatto un brutto infarto e ho scoperto di averne fatti altri quattro o cinque senza accorgermene. Mi ha lasciato un po’ di conseguenze. Il medico dice che devo ringraziare i farmaci che ci sono oggi. Ma vado avanti». Spera in qualcosa ? «Che qualcuno mi aiuti».