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— BRESCIA —
NEI GIORNI SUCCESSIVI al delitto, nessuno riusciva, tra i familiari di Moira Squaratti, a pensare che lui potesse esserne il responsabile. Nella famiglia della ragazza, la sua ragazza, che poi avrebbe colpito con un coltello da cucina, mentre lei cercava invano di difendersi, Luigi Marchetti (nella foto a sinistra) era sempre stato «un ragazzo gentile, disponibile».
Il sempre, in realtà, andrebbe riferito, al massimo, fino ai mesi prima del delitto. Luigi Marchetti e Moira Squaratti, da un anno vivevano insieme nell’abitazione a pochi metri da quella dei genitori della ragazza. E lì venne trovato il fuoristrada dell’omicida nelle primissime fasi delle indagini. Il giovane, 32 anni all’epoca del delitto, lavorava nel ristorante che con il fratello gemello e i familiari gestiva a Sovere. Dalla cassa di quel ristorante prese i soldi, circa 4.000 euro, per la fuga. Moira, durante i mesi di convivenza aveva però iniziato a capire meglio chi fosse il fidanzato, soprattutto quali vizi avesse. Alcol e carte su tutto, ma anche la cocaina. «Quella sera — confesserà Marchetti — però non ne avevo assunta».
In tanti, dopo il delitto, quando i profili delle due persone coinvolte sono apparsi in modo più chiaro, più netto, si sono chiesti perché lei lo amasse, con un carattere tanto diverso dal suo. In carcere ricevette la visita di Giuseppe Romele, oggi vice presidente della Provincia di Brescia e parlamentare del Pdl, allora di Forza Italia. Gli disse d’aver agito «come in un incubo», d’aver capito che era morta «solo dopo averla toccata». E quell’aver agito come in un incubo diventerà un pilastro della strategia difensiva imperniata sulla « parasonnia dell’omicida», ovvero l’agire nel sonno senza rendersene conto. Nella conversazione in carcere Marchetti ribadì «d’assumersi tutte le responsabilità del delitto». Trascorse i primi giorni di carcere leggendo «De bello gallico», al parlamentare chiese libri sulla prima e seconda guerra mondiale e sigarette. Ai familiari di Moira non ha mai chiesto perdono.
M.P.