Università, la denuncia: "Giovane e donna? Un ostacolo, i pregiudizi sono duri a morire"

Elisabetta Comini, docente di Fisica sperimentale, è tra i 20 scienziati italiani di maggior impatto

Elisabetta Comini

Elisabetta Comini

Al top in Italia tra le colleghe connazionali e ventesima nella classifica generale per l’impatto internazionale dei suoi studi nell’area di "Material & Nano Sciences". Tuttavia i meriti, pur evidenti, non sempre facilitano la carriera di una donna. "Tante volte ho pensato di lasciar perdere, poi arrivava un riconoscimento che mi faceva andare avanti", racconta Elisabetta Comini, professoressa ordinaria in Fisica sperimentale dell’Università degli Studi di Brescia, fresca di delega del Rettore per Innovazione e Trasferimento Tecnologico. Classe 1972, specializzata nello studio e nella crescita di ossidi metallici nanostrutturati, dal 2017 è responsabile del laboratorio Sensor del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, dove si progettano e sviluppano nuovi materiali e processi produttivi per supportare la crescita sostenibile e contribuire in ambito biomedico. Tra gli scienziati e scholars italiani di maggiore impatto censiti nel Tis (Top Italian Scientists), Comini è prima nell’area "Material & Nano Sciences" della lista "Top Italian Women Scientists per Macroarea" e ventesima nella classifica generale (al sesto posto, per dire, c’è l’ex ministro Roberto Cingolani). Nella classifica Elsevier (Scopus), basata sull’impatto delle citazioni scientifiche, è 91esima a livello internazionale nella categoria ‘Chimica Analitica’ su 107.126 ricercatori.

Elisabetta Comini
Elisabetta Comini

Nel Tis, per la sua area, siete 23 donne su 140 top scientist. Un orgoglio per voi che siete presenti, ma sono ancora così poche le donne che ce la fanno in ambito scientifico?

"Sicuramente c’è molto da fare a monte, per avvicinare le giovani alle materie Stem. Di fondo, c’è un problema culturale, spesso sono le stesse famiglie che scoraggiano le ragazze ad intraprendere studi in materie scientifiche. Non è stato il mio caso, i miei genitori mi hanno assecondato, anche perché, pensando al dopo, sapevano che comunque avrei potuto insegnare matematica o fisica".

Invece è diventata ricercatrice e poi professoressa ordinaria.

"Dopo la laurea in fisica sperimentale a Pisa, nel 1996, ho concluso il dottorato e poi sono diventata ricercatrice in UniBs nel 2001. Poi sono passati 13 anni prima di diventare associata e, infine, nel 2016-2017 ordinaria".

Lo dice con un po’ di amarezza...

"Ho incontrato molte resistenze, secondo me ascrivibili al fatto di non essere un uomo. A volte non è neanche cattiveria, ma essere donna e giovane è un ‘brutto abbinamento’. Non è stato facile. Ora qualcosa di positivo si vede, grazie al lavoro del Cug (Comitato unico di garanzia) e alle modifiche ai sistemi di reclutamento".

Cioè?

"Se il lavoro di un ricercatore soddisfa le richieste del Ministero, ora si ha il passaggio a professore associato, sulla base di una valutazione scientifica. L’imbuto si è spostato, quindi, più su, a livelli più alti di carriera".

Pesa anche il carico di lavoro famigliare, ancora troppo sbilanciato sulle donne?

"Nel mio caso, io e mio marito ci siamo distribuiti i compiti. Quelli che vanno sradicati, secondo me, sono soprattutto i pregiudizi. Io faccio parte di un panel di valutazione per la Comunità Europea. Attraverso un training, è stato evidenziato come alcune credenze siano tanto radicate da portarci quasi inconsciamente a giudicare peggio il lavoro di una donna rispetto a quello di un uomo. Per evitare condizionamenti, ad esempio, io correggo i progetti senza guardare il nome dell’autore".