Omicidio Bani, confermati i trent’anni: si punta all’estradizione

La Cassazione non cambia la sentenza di appello per il marito di Daniela, attualmente detenuto in Tunisia

aniela Bani fu uccisa nel settembre 2014 dal marito, il tunisino Chaambi Mootaz (Fotolive)

aniela Bani fu uccisa nel settembre 2014 dal marito, il tunisino Chaambi Mootaz (Fotolive)

Brescia, 15 giugno 2019 - Il caso di Daniela Bani per la giustizia italiana è chiuso. Il suo assassino, il marito Chaambi Mootaz, dovrà scontare 30 anni di carcere. Lo ha deciso la Cassazione, che ha respinto il ricorso del 38enne tunisino e ha trasformato in definitiva la condanna già decretata in primo grado e in appello. Ad ascoltare la lettura del verdetto, ieri al palazzaccio, c’era Giusy Ghilardi, la mamma di Daniela, a Roma con le amiche dell’Associazione nazionale vittime di violenza (Unavi).

«Temevo che la sentenza non fosse confermata ma non è stato così, per fortuna – dice con voce piena di emozione – Dopo il mio calvario questo è già un risultato». Mootaz è stato arrestato a Tunisi in febbraio in esecuzione di un mandato di cattura internazionale.

La sua latitanza, durata quasi 5 anni, era iniziata il 22 settembre 2014 poche ore dopo aver ucciso per gelosia Daniela, 30 anni, da cui aveva avuto due bimbi, ora di 8 e 12 anni. Il più grande era in casa durante l’aggressione e ha raccontato quei terribili momenti, lui chiuso nella sua cameretta, la madre che non ha più visto, in un toccante tema scolastico poi letto durante il processo d’appello. Consegnati i bambini a un amico, il padre aveva preso un volo per la Tunisia e non era più tornato. Da laggiù aveva chiamato i suoceri e il cognato avvisando di non riportarli a casa perché la moglie era morta. In Africa Mootaz ha continuato la sua vita come nulla fosse. Solo dopo una serie di appelli alla politica – in particolare al vicepremier Salvini – è stato portato in carcere. La signora Bani attendeva l’irrevocabilità della sentenza come un assetato attende l’acqua nel deserto. L’iter giudiziario aperto infatti le ha impedito di accedere ai fondi per le vittime di violenza e ai 2.200 euro di rimborso promessi dalla Procura.

«Lo Stato per me finora non ha tirato fuori un euro. Per i tre gradi di giudizio di Mootaz invece trentamila euro, andati ai suoi legali» si sfoga Giusy, che con il marito alleva i nipotini come figli. Il suo pensiero ora è che quell’uomo rimanga in carcere. Non un passaggio scontato, giacché la sentenza dovrebbe essere riconosciuta dalle autorità tunisine. «L’estradizione non è prevista e in materia c’è un vuoto diplomatico – spiega l’avvocato Silvia Lancini, che con il collega Piero Pasini ha assistito i Bani – Ma non staremo a guardare, come Unavi ci faremo sentire dal governo. Giovedì siamo state ricevute dal vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e abbiamo ricevuto rassicurazioni».