Simone Moro in Himalaya, tragedia sfiorata in alta quota: "E' andata bene"

L’alpinista bergamasco scivola in un crepaccio mentre tenta la scalata del Gasherbrum, la compagna di scalata Tamara Lunger si ferisce per salvarlo

Simone Moro e Tamara Lunger

Simone Moro e Tamara Lunger

Bergamo, 20 gennaio 2020 - Sognava di scrivere una nuova pagina nel grande libro dell’alpinismo, ma stavolta Simone Moro si è dovuto arrendere a una montagna che si è dimostrata più forte di lui. Certo l’avversario era di quelli da far tremare le vene dei polsi: il Gasherbrum I, quello «splendido picco» secondo la traduzione dal nepalese che anche l’undicesima montagna più alta al mondo con i suoi 8.068 metri e una tra le più insidiose per la difficoltà di scalata e le condizioni meteo estreme. Moro e la sua compagna di scalata, l’alpinista Tamara Lunger per aggiungere ancor più adrenalina alla sfida avevano deciso di scalarlo in concatenamento, cioè inanellando in un’unica scalata il Gasherbrum I e il II, più basso di una trentina di metri, separati da un colle di 6.600 metri. Gli unici ad aver compiuto l’impresa erano stati nel 1984 Reinhold Messner e Hans Kammerlander, tra mille difficoltà e in estate, al 23 al 30 giugno, mentre Moro - il mago che ha il record di più ascensioni di ottomila in inverno - ha scelto gennaio. Era da un anno che preparava l’impresa, fin nei minimi particolari com’è solito fare perché la montagna gli ha insegnato che un’inezia può fare la differenza tra vita e morte, ma il Gasherbrum è riuscito a tirargli un brutto scherzo.

«Ieri siamo arrivati a un soffio da un epilogo tragico e funesto sia per me che per Tamara – ha svelato Moro affidando il suo racconto ai social dopo essersi rifugiato nel campo base sul Karakoram, al confine tra Pakistan e Cina –. Avevamo superato l’ultimo grosso crepaccio e procedevamo sul plateau sommitale. Approcciando un crepaccio mi sono messo come sempre in posizione per assicurare Tamara che per prima lo ha attraversato e si è poi portata in zona di sicurezza, 20 metri oltre il crepaccio. Poi è venuto il mio turno e dopo una frazione di secondo mi si è aperta una voragine sotto i piedi e sono precipitato».

Tamara ha subìto uno strappo tanto violento che è volata fino al bordo del crepaccio. «Io sono caduto a testa in giù per 20 metri sbattendo schiena gambe e glutei sulle lame di ghiaccio sospese nel budello senza fine in cui continuavo a scendere – prosegue Moro –. Sopra, Tamara aveva la corda avvolta intorno alla mano e gliela stringeva come una morsa, provocava dolori lancinanti e insensibilità. Io ero al buio, lei lentamente scivolava sul ciglio del crepaccio. Il tutto complicato dal fatto che aveva racchette da neve ai piedi. Sono riuscito con una mano a mettere un primissimo precario ancoraggio e, pur sentendomi scendere verso l’abisso, ho avuto la lucidità di prendere la vite da ghiaccio che avevo all’imbrago e fissarla nella parete liscia e dura. Quella vite ha fermato lo scivolamento mio e la probabile caduta nel crepaccio di Tamara».

Oltre due ore di sforzi disumani per risalire il crepaccio. «Tremolante e con mille contusioni ho abbracciato Tamara che piangeva anche dal dolore alla mano. Mentre salivo era riuscita ad organizzare una bella sosta di recupero e ad assicurarmi mentre scalavo i 20 interminabili metri di ghiaccio liscio. Siamo scesi al campo base, ho organizzato l’evacuazione con richiesta di accertamenti medici. I dolori sono più forti e la mano di Tamara parzialmente non utilizzabile. Tutto è bene quel che finisce bene».